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Christopher Lasch, il solo e vero populismo

Con il passare degli anni, il pubblico e l’influenza di Christopher Lasch (1932-1994) sono aumentati. Da Alain de Benoist a Jean-Claude Michéa, tutta una corrente intellettuale ne è direttamente ispirata. Christopher Lasch rimane uno dei massimi teorici del populismo, che ci ha lasciato con Il Paradiso in terra, più che una storia del populismo americano, più che un manifesto di rivolte popolari, una canzone d’amore dedicata alla «America di mezzo» (Middle America, NdT) ​​​​e a tutti «Paesi di mezzo».

Small is beautiful (Piccolo è bello, NdT). È attraverso queste parole, che sono diventate uno slogan, che l’economista Ernst F. Schumacher è diventato noto al grande pubblico. Niente riassume meglio di queste parole l’ideale populista dello storico americano Christopher Lasch, per il quale tutto ciò che era piccolo non era solo bello, ma salutare e sacro, professione di fede che percorre tutti i suoi libri e che non poteva che scontrarsi con il Paese della «bigness», della «grandezza», del gigantismo e delle taglie XXL. A questa hybris senza limiti, Lasch contrapponeva le virtù originarie della piccola borghesia americana, custode dell’ideale dei pionieri. Laddove gli intellettuali suoi contemporanei vedevano solo ristretto provincialismo, latente xenofobia, ristretta arretratezza, egli invece celebrava il prosaismo incantato della vita ordinaria, quest’uomo comune (the common man) tipico della «America di mezzo» ​​​​e che offre le garanzie di una vita buona e autenticamente democratica: un ideale di vita senza ostentazione, segnato dal gusto per l’indipendenza, dall’amore per i valori della famiglia e dalla difesa della solidarietà concreta.

La socialità naturale dell’uomo

Come Luc Dietrich, l’autore fin troppo dimenticato di Bonheur des tristes, Lasch credeva che «l’uomo è un animale da compagnia». Il suo orizzonte naturale è la famiglia, gli amici, il vicinato, il lavoro, come ci ricorda uno dei suoi libri più ambiziosi, Rifugio in un mondo senza cuore. La famiglia in stadio d’assedio (1977). Questa non è una filosofia del «ritiro», ma l’unica misura possibile dell’uomo, questa «dimensione umana», cara a Ramuz, né troppo grande né troppo piccola. E’ la stessa cosa che Lasch ha magnificato in un’opera potente, originale e premonitrice, che si costruiva ai margini della schiuma mediatica e delle mode universitarie, lontano dalle «ideologie alla moda», per usare un’espressione di Alain de Benoist, il quale fu uno dei primi a mettere a disposizione del pubblico francofono i libri di Lasch. Non è vietato vedere nel capofila della Nouvelle Droite francese l’equivalente esagonale dell’Americano. Partendo (De Benoist, NdT) dalla Destra radicale, ha preso la stessa strada di Lasch in direzione opposta per arrivare a conclusioni, molte volte simili. Due pensatori inclassificabili. Troppo a sinistra per la destra, troppo a destra per la sinistra.

Ciò che colpisce, a prima vista, nell’opera di Christopher Lasch è la sua straordinaria serietà. Questo autore credeva con tutte le sue forze nella serietà della vita e nella sua precarietà metafisica. Niente dura che non sia già durato. Ora, cosa ha attraversato i secoli e ci viene dalla profondità del tempo? Quella che Marcel Mauss chiamava «la roccia della morale eterna» e di cui Lasch cercava tracce nell’universo mentale della piccola borghesia. Più di tutto, condivideva con gli uomini del passato la convinzione che non si possa fare a meno di questo strano sentimento, sia psicologico che religioso: la vergogna. Essa sola ci preserva dall’osceno. Tuttavia, i moderni si sono impegnati ad abolire la vergogna. Trionfa così ciò che si potrebbe chiamare l’indecenza comune (common indecency), l’omaggio del vizio moderno alla virtù orwelliana.

Storico della morale che mescola storia sociale e storia religiosa, formatosi alla scuola della severa teologia protestante e dell’oscura antropologia freudiana, alimentato da un pessimismo radicale e volontaristico (il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, nelle parole di Gramsci), egli guardava le cose con lo sguardo di un moralista dall’animo inquieto e difendeva una concezione tragica dell’esistenza.

L’addio alla Sinistra

Nel corso degli anni il suo pensiero è stato liberato da inutili rimandi, da una lunga ascesi intellettuale. Quindi si è liberato da tutto, tranne che dell’essenziale. Come Ulisse, ha compiuto un lungo viaggio intellettuale, dal Nebraska, dove è nato nel 1932, fino alla sua morte prematura nel 1994. Laureato ad Harvard e alla Columbia, storico di formazione, professore di professione, intellettuale di spirito (critico oltre che organico), farà prima molta strada con quella che negli anni ’60 fu chiamata la Nuova Sinistra (New Left), alla quale non tarderà di rimproverare la sua atavica ipocrisia, tanto nuova com’era, che (già) giurava solo sugli esclusi e sulle minoranze. Ma la principale critica che rivolgerà alla sua famiglia d’origine, oltre alla sua sdegnosa condiscendenza verso le maggioranze (necessariamente reazionarie), è quella di essersi abbandonata senza riserve all’ideologia del progresso, che il suo principale discepolo in Francia, Jean-Claude Michéa, designerà sotto il nome di «complesso di Orfeo», che vieta alla Sinistra progressista di guardare indietro, al passato, pena la sua scomparsa. Indirizzerà poi la sua ricerca verso il marxismo (Gramsci e Lukács) e i pensatori della Scuola di Francoforte (Adorno e Horkheimer), ai quali sarà debitore per la sua teoria della cultura – compreso il suo lungo articolo Cultura di massa o cultura popolare?, con cui ne fornisce una panoramica illuminante – prendendo le distanze dall’antifascismo maniacale e caricaturale di Adorno.

Cammin facendo, Lasch si ritroverà solo, intellettualmente parlando. Era dunque maturo per riconnettersi con una tradizione inghiottita, il populismo agrario, una meteora che attraversò il cielo statunitense alla fine del XIX secolo. A modo suo ha rinnovato il gesto di Péguy in Francia, di Orwell in Inghilterra, di Vassili Rozanov in Russia, e (ri)scoperto la critica populista del progresso lanciata agli albori della rivoluzione industriale dalle «frazioni più modeste del ceto medio», le quali difendevano le forme di organizzazione del lavoro artigianali e precapitalistiche, le prime rimaste fuori dal progresso: piccoli proprietari terrieri, artigiani, commercianti, mezzadri, contadini, tanti coriandoli sociali schiacciati dalla macchina industriale e che Marx seppellirà con tutto il suo disprezzo nel Manifesto del Partito Comunista, parlando di «classi reazionarie [che] cercano di far tornare indietro la ruota della storia».

Un mondo di produttori

È nel suo capolavoro, Il Paradiso in Terra (1991), che Lasch ricostruirà, pezzo per pezzo, questa fisiologia del populismo sulla base della rivolta agraria nata nel Stati meridionali degli Stati Uniti, alle soglie degli anni Ottanta dell’Ottocento, quando i piccoli coltivatori insorsero contro i monopoli e la finanza, cercando prima di «raggrupparsi in cooperative, poi di creare un terzo partito politico tra repubblicani e democratici», come ricorda Edward Castleton in un numero della rivista Critica, dedicato al populismo, unica alternativa possibile al bipartitismo. Di questo tentativo fallito, Lasch dirà che non era «né socialista né socialdemocratico, [ma] allo stesso tempo radicale, persino rivoluzionario, e profondamente conservatore». Abbiamo lì, a grandi linee, i contorni paradossali del suo populismo, che prenderà in prestito da alcune tradizioni, spesso antagoniste, ma la cui ricombinazione molecolare determinerà la sua visione del mondo, delle cose e delle persone.

Così Lasch trarrà da Lincoln il suo ideale di una «Repubblica di produttori»; riprendendo dai Padri fondatori e dai pensatori liberali, il principio, ai suoi occhi incondizionale, secondo il quale il possesso di beni è condizione preliminare per l’esercizio della cittadinanza. Parallelamente, egli alimentò il suo populismo con l’etica protestante, senza trascurare la «filosofia della lealtà», sviluppata da Josiah Royce, né il contributo di «personalità paradossali» come Thomas Carlyle, Ralph Waldo Emerson, William James, George Sorel, il teorico il più prominente del sindacalismo rivoluzionario, il quale aspirava a dare al produttore il controllo sul suo destino, cioè ad abolire il rapporto di dipendenza salariale, problema estraneo al marxismo, per il quale il lavoro salariato era preludio all’inevitabile proletarizzazione del lavoratore . Tuttavia, la questione dell’autonomia del produttore si porrà nel XIX secolo in termini spesso drammatici. Ossessionerà la storia del primo sindacalismo, denigrato dai marxisti che videro in esso una rinascita della vecchia organizzazione del lavoro: le corporazioni dell’Ancien Regime.

La disciplina spirituale contro il risentimento

La responsabilità è stato il primo fondamento della fede populista di Lasch. Niente lo esasperava più del giudizio di miserabilità adottato senza riserve dalla Sinistra, che la porta a guardare con compassione le classi lavoratrici (working classes). «Il populismo», osserva, «ha sempre rifiutato la politica basata sulla deferenza oltre che sulla pietà», perché «non si può chiedere in dono una buona opinione di sé stessi; dobbiamo conquistarcela». È con questo spirito che dobbiamo rileggere la luminosa interpretazione da lui data della lotta per i diritti civili. Fu solo al Sud che ebbe successo il movimento lanciato da Martin Luther King perché lì poté contare su una «etica piccolo-borghese della indulgenza e della responsabilità» e sulla coscienza «tragica dell’esistenza che ha le sue radici nel fondamentalismo battista». Ben diverso sarà nelle città industriali del Nord dove il fallimento della predicazione di Luther King lascerà campo aperto al «Black Power». Tuttavia, a differenza dei suprematisti neri, Luther King aveva appreso dal teologo Reinhold Niebuhr (uno dei grandi riferimenti di Lasch) la «disciplina spirituale contro il risentimento», l’unico modo per porre fine al ciclo della violenza mimetica. È in nome di questa etica di responsabilità e autonomia che Lasch si opporrà alle politiche di discriminazione positiva propugnate dalle élite progressiste della costa orientale.

Wall Street e Woodstock: la nuova alleanza tra liberali e libertari

Questa non è l’unica critica che rivolgerà alle élite, tutt’altro. A loro dedicherà anche la sua ultima opera, pubblicata pochi giorni prima della sua morte, La Rivolta delle élite (1994). «C’è stato un tempo in cui ciò che avrebbe dovuto minacciare l’ordine sociale e le tradizioni civilizzatrici della cultura occidentale era la “rivolta delle masse”. Al giorno d’oggi, però, sembra che la principale minaccia non provenga dalle masse, ma dai vertici della gerarchia». Lasch ha fatto risalire questa «rivolta delle élite» all’inizio degli anni ’70 e ’80, quando una «superclasse» globalizzata si è liberata da ogni controllo, assoggettando i popoli alla sua legge ferrea.

Tra i primi, se non il primo, ha descritto questa alleanza capovolta tra Wall Street e Woodstock che avrebbe dato vita all’alleanza tra liberal e libertari. Previde persino una relazione più travagliata dietro questo matrimonio innaturale, associando in uno stesso disegno le filosofie di Adam Smith e del marchese de Sade. «Sade», afferma coraggiosamente, «immaginava un’utopia sessuale in cui tutti avevano il diritto di possedere chiunque; gli esseri umani, ridotti ai loro organi sessuali, diventano poi rigorosamente anonimi e intercambiabili. La sua società ideale riaffermava così il principio capitalista secondo il quale uomini e donne sono, in ultima analisi, solo oggetti di scambio». Perché se c’è davvero un grande precursore di questa società liberata dal suo «SuperIo» e controllata solo dai suoi impulsi, è senza dubbio de Sade. È il profeta paradossale del nostro tempo, colui che ha intravisto le conseguenze ultime dell’egoismo assiomatizzato dal pensiero liberale: il godimento immediato come imperativo categorico. Così liberato, il sesso è diventato neoliberista. Da Edipo a Narciso, da un complesso all’altro, la strada era tracciata.

Il narcisismo era per Lasch la malattia sintomatica di questo tempo. Ne ha dato una sorprendente interpretazione ne La cultura del narcisismo, tradotto per la prima volta in francese nel 1981, uno dei grandi libri del nostro tempo. L’Io assediato. Saggio sull’erosione della personalità ne è, per così dire, il seguito, così come il suo dialogo con Cornelius Castoriadis, La cultura dell’egoismo. Un’economia del desiderio non può funzionare senza una personalità narcisistica, anche se quest’ultima finisce per moltiplicare infinitamente soggettività sfortunate. L’idea dominante che Narciso ha della vita è che tutto è facile. Non aderisce, scivola, come un uomo-teflon. Ma c’è una controparte a questa struttura: Narciso non è mai sicuro di esistere, da qui la sua disperata ricerca di riconoscimento. A cui si sforzano di rispondere le ideologie dello sviluppo personale, unica risposta all’era del vuoto e del disordine identitario che essa ha aperto.

La dimensione religiosa della vita

«L’atmosfera attuale non è religiosa, ma terapeutica», lamenta Lasch. Tuttavia, se c’è qualcosa a cui egli attribuisce un significato particolare, è la dimensione religiosa della vita. Religione e politica si compenetrano costantemente in lui, a tal punto che non concepiva l’esistenza, né individuale né collettiva, se non posta sotto «il destino delle società minacciate», secondo una formula che amava citare, di Reinhold Niebuhr. Non voleva tanto rendere eroica la piccola borghesia quanto strapparla alla sua gentrificazione programmata, che equivaleva a voler democratizzare l’eroismo e rendere eroica la democrazia – un vasto programma. Con Proudhon e pochi altri condivideva illusioni populiste che le formule assassine di Marx avevano comunque rovinato. Perché in Marx non troveremo mai lodi, se non retoricamente, della bottega o del mestiere. Erano per lui forme precapitalistiche e preindustriali irrevocabilmente superate.

Lasch (e questa è la principale debolezza di un’opera altrimenti importante) vuole sfuggire alla dialettica hegeliana Padrone e Schiavo. Fondamentalmente, il suo populismo oscura la questione del potere. Il che gli conferisce una dimensione utopica, non aspirando tanto a controllare il corso della storia quanto ad allontanarsi da essa per riconnettersi con un ordine mondiale defunto. Come non pensare a L‘agente segreto, il romanzo di Conrad, in cui il protagonista cerca di distruggere l’osservatorio di Greenwich, il primo meridiano? Così ragiona la rivolta populista: fermare l’orologio del tempo e della storia.

«La rivolta è contro il progresso», ha detto in sostanza Jacques Ellul, uno dei grandi pensatori del secolo scorso, aggiungendo che «essa è insieme reazionaria e illuminista». È proprio contro il progresso che si sono ribellati i piccoli contadini americani, i luddisti inglesi o i Canut lionesi. Gli esempi potrebbero essere numerosi. La rivolta può, in rare occasioni, avere successo, ma poi il ribelle non sa cosa fare della sua vittoria. È la fuga di Spartaco da Roma, nata già pronta a fallire. Non c’è futuro nella rivolta populista più di quanto non ce ne sia nella coscienza progressista.

François Bousquet

Traduzione a cura di Manuel Zanarini

(François Bousquet, “Christopher Lasch, le seul et vrai populisme”, Éléments, 7 giugno 2022. Per ricevere in Italia i numeri di Éléments, Nouvelle École e Krisis, scrivere alla seguente mail: mtdiorama@gmail.com )

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