Non si fa un bambino per poi abbandonarlo: con le parole pronunciate dal detective Soo-jin, le uniche pronunciate nei primi minuti del film, emerge chiaramente il pensiero di Hirokazu Kore-eda, regista giapponese i cui film sono incentrati prevalentemente sui rapporti familiari. La sinossi della trama è abbastanza semplice: So-young, giovane prostituta, abbandona presso una chiesa il figlio che verrà preso da Sang-hyeon, con il supporto di Dong-soo che vi ci lavora, per rivenderlo sul mercato delle adozioni illegali; nessuno dei protagonisti è al corrente che il bambino, Woo-sung, è stato in realtà deposto nella baby-box dal detective Soo-jin che sta indagando su questi traffici. L’indagine è il collante che tiene insieme tutti i fili narrativi di un film che ruota attorno al tema della genitorialità sviluppando la dialettica tra la condizione di genitore e quella di prole tenendo ben presente la questione economica sottostante. Giova sottolineare che il titolo del film Le buone stelle è fuorviante dato che il titolo originale Broker andrebbe tradotto come L’intermediario.
Infatti, l’apparente molla principale che spinge il protagonista a sottrarre il bambino all’istituzione che vorrebbe prendersene cura, la chiesa che mette a disposizione uno spazio per lasciare i bambini alle madri che non vogliono abortire, è la somma di denaro che coppie benestanti sono disposte a pagare pur di appagare il loro desiderio di genitorialità. Di conseguenza, sin dall’inizio il regista giapponese mostra come la ratio che sta dietro questa compravendita somigli a quella per gli animali domestici tant’è che, presumibilmente per ragioni sociali, una bambina viene valutata economicamente meno di un bambino. La molla che invece spinge il detective ad una caccia implacabile è una morale ai confini dell’insensibilità, tant’è che il bambino, ad un certo punto, diventa nulla più che un’esca per la cattura dei colpevoli. Questa contrapposizione diventa però il perno per lo sviluppo che cerca di mettere sul tavolo il vero tema alla base del racconto: la crescita del bambino.
Alla rigida adesione alla legge viene contrapposta la principale alternativa che si contrappone alla compravendita dei neonati: l’orfanotrofio, ed in questo modo viene posto da un lato il dilemma morale se sia in qualche modo giustificabile un reato se questo serve a garantire un futuro ad un neonato. Non a caso, viene messo in luce come la principale molla che porta una madre ad abbandonare un figlio sia l’indigenza economica, e come il benessere possa spingere a considerare tutto, quindi anche un neonato, come un oggetto di scambio commerciale. D’altro canto a spingere all’acquisto di un essere vivente può essere sia l’appagamento sociale, che deriva dall’esibire il bimbo come un trofeo, come la fragilità che deriva dal non poter diventare genitori per via biologica e.g., sterilità. Queste considerazioni porteranno il detective Soo-jin a domandarsi se il rigore morale e la necessità di punire i colpevoli possa portare a perdere di vista quello che è, in definitiva, il benessere del bambino, nonché all’impossibilità di capire le ragioni alla base del comportamento di tutti gli attori coinvolti.
Partendo da questa prospettiva, lo spettatore è chiamato ad una riflessione su uno dei problemi cardine del nostro tempo: il rapporto tra quello che è possibile, o conviene, fare e quello che è giusto fare. Nel momento in cui viene messa in scena la dialettica tra: il bisogno economico della madre, gli obblighi sociali del padre, il vissuto dell’orfano cresciuto in orfanotrofio, la necessità dell’ordine incastonata della legge, lo spettatore si ritrova nel equilibrio precario del detective e convincersi della necessità del compromesso per raggiungere l’unico equilibrio possibile che risiede nella tutela dell’unica figura che non può essere un attore in gioco pur essendo il centro della trama: il bimbo. Non a caso, dopo il finto lieto fine, il film finisce con la nostalgia di una famiglia (im)possibile.