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Filosofia Storia delle Religioni

Intervista su “Tradizione/tradizioni” a cura di Danilo Breschi

Di seguito l’intervista che ho rilasciato a Il Pensiero Storico N.12, Rivista internazionale di storia delle idee a cura di Danilo Breschi, intitolata Tradizione/tradizioni. Nella Rivista trovate anche il contributo di Alain de Benoist.

Tradizione/tradizioni 
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
anno VII, n. 12, dicembre 2022
pagine 25-28

Intervista a Alberto Giovanni Biuso

1. Secondo Lei, cosa si deve intendere in generale e in astratto per “tradizione”?

Come tutte le parole che contano, tradizione è un termine polisemantico, che muta di significato e direzione in relazione sia al contesto nel quale lo si usa sia alle intenzioni di chi lo usa. Il primo gesto da compiere consiste dunque nel tentare di ‘raffreddare’ questa parola, di analizzarla nel modo più scientifico possibile.

Se lo si fa, ci si accorge facilmente che tradizione è sinonimo di memoria. Della memoria collettiva il cui permanere è necessario per la sopravvivenza di qualsiasi comunità e per la sua identità. Come un individuo che per trauma o malattia ha perduto la memoria, non può che smarrire a poco a poco se stesso sino a cancellare il proprio nome, la storia che è stato, le relazioni che ha vissuto (in questo consiste il morbo di Alzheimer), così una società e una civiltà che dimentichino le proprie radici, scaturigini e storia – vale a dire la loro tradizione – sono destinate a tramontare, ad autodistruggersi e a essere cancellate.

2. A suo avviso, è più corretto parlare di “tradizioni” al plurale, e, nel caso, quale sarebbe il criterio discriminante: la religione? La nazionalità, ossia l’appartenenza ad un’area geografica e ad un’epoca storica nelle quali un gruppo di esseri umani nasce, cresce e si sviluppa? Tante tradizioni quante sono le religioni? Tante tradizioni quante le nazionalità ancora presenti e persistenti? Oppure esistono altri criteri?

Sì, tradizione è parola non soltanto polisemantica ma anche plurale al suo interno, qualunque significato le si attribuisca. Il tempo è infatti il vero nucleo di qualunque tradizione, la quale consiste in una sistole e diastole di identità e differenza. Tradizione è “tradizioni” anche perché una comunità – come qualunque ente che transita nel tempo – cambia continuamente mentre permane e permane mentre incessantemente muta. Il permanere è dunque sempre dinamico e già solo per questo la tradizione è intrinsecamente plurale.

Essa è intessuta di una pluralità e varietà di elementi tra i quali alcuni sono ovvi: la parte di mondo abitato da una comunità (territorio); l’idioma creato e utilizzato per comunicare al proprio interno (linguaggio); la memoria degli eventi condivisi (storia); i modi della vita quotidiana (costumi, mentalità); il riferimento agli elementi sacri del mondo (religione).

Si danno dunque tante tradizioni quante comunità che condividano al loro interno tali elementi. Comunità che poi interagiscono in vari modi con altri gruppi e questo genera contaminazioni e trasformazioni nelle singole tradizioni. Le quali, si conferma, sono intrinsecamente dinamiche.

3. È possibile parlare ancora oggi di “tradizione” in Europa dopo almeno cinque secoli, se non più, di dispiegamento di quel processo di messa in discussione, se non autentica contestazione radicale, della tradizione che si è soliti chiamare “modernità”? E, se sì, in quale misura, in quali ambiti?

Anche la ‘modernità’ è un elemento della tradizione europea, una sua invenzione. Scaturita dalla Riforma luterana e dalla Rivoluzione scientifica con uno slancio, determinazione e potenza che ne hanno spesso nascosto le pur complesse articolazioni e sfumature concettuali e prassiche, la modernità ha conservato in realtà consistenti tratti di continuità con la tradizione. E, se si comprende che cosa siano la storia e il tempo, non poteva che essere così. La Riforma si poneva l’esplicito scopo di tornare alla Chiesa apostolica, alla presunta purezza dei primi secoli, rifiutando la ‘modernizzazione’ filosofica costituita dalla Scolastica medioevale, vale a dire l’innesto fortissimo della filosofia greca dentro il corpus dottrinale cristiano. Anche la Rivoluzione scientifica prese il proprio nome da un moto di “ritorno al principio” – questo significa all’origine Revolutio – e in Galilei persino di ritorno al vero Aristotele contro l’aristotelismo che aveva tradito lo spirito antidogmatico, empirico e naturalistico del filosofo di Stagira.

Poi, naturalmente, il moderno si è caratterizzato come il lento emergere di un’idea di “progresso” che oggi appare ovvia ma appunto lo appare oggi mentre in realtà la sua nascita è assai recente e data da alcune correnti dell’Illuminismo (Condorcet) e soprattutto dalla meccanica “legge dei tre stadi” di Comte. È significativo, però, che anche Comte abbia concluso alla fine la sua parabola fondando addirittura una Chiesa. Il moderno nasce davvero con Hegel e con Marx. E tuttavia anche quest’ultimo rappresenta di fatto una secolarizzazione di istanze millenaristiche ben presenti nella tradizione europea. Piuttosto la vera vittoria della modernità consiste nell’affermarsi del postmoderno, vale a dire nel trionfo dello spettacolo che al modo di una metastasi ha inglobato in sé la politica, il mondo della formazione – scuole e università –, l’informazione.

Il postmoderno consiste anche nella iper-personalizzazione delle ideologie, identificate con individui singoli in carne e ossa e quindi sostanzialmente dimidiate nella loro dimensione profonda, simbolica, oggettiva. E poi, e soprattutto, il postmoderno è la cancellazione del reale sostituito da pure e semplici narrazioni strumentali alla prosecuzione del dominio.

4. Guardando fuori dall’Europa, quale ragionamento si sente di poter svolgere in merito al tema della “tradizione”? La globalizzazione, intesa qui come estensione all’intero pianeta della modernizzazione di tipo occidentale, ha cancellato, o sta cancellando, le tradizioni dei popoli extra-europei? Oppure, a suo avviso, occorre operare dei distinguo ben netti tra le diverse regioni del mondo?

Un altro elemento del moderno è la sua tendenza alla uniformità, alla omologazione delle differenze. In questo senso la globalizzazione rappresenta la sua vera vittoria. Essa infatti consiste in un processo di grave impoverimento della ricchezza antropologica, simbolica, linguistica e religiosa dell’umanità. Le culture umane si stanno estinguendo in parallelo – e non è certo casuale – con l’estinzione di molte specie viventi, sia animali sia vegetali. Mi dilungherò un poco su un esempio che mi sembra possa chiarire quanto intendo dire.

Dal XIII secolo a.C. fino al 1526 d.C. alcune civiltà raffinate e potenti si susseguirono negli aspri e ricchi territori delle Ande, estendendosi dalle vette che arrivano a 6000 metri sino alle pianure e alla costa. Al culmine della sua espansione, l’impero Inca dominava su un territorio vasto migliaia di chilometri, dal Perù all’Ecuador occidentale, alla Bolivia, al Cile, all’Argentina centro-occidentale. Lo abitavano 12 milioni di persone, di gruppi etnici disparati e molteplici.

Furono uomini e comunità in profondo e perfetto accordo con i due elementi che soli possono dare senso alla parzialità umana: gli altri animali e gli dèi. Per i popoli delle Ande tutti gli enti si distribuiscono nei tre mondi che formano l’intero. Nel mondo superiore, al di là delle cime e delle nuvole, abitano gli dèi. Gli umani stanno in un qui e ora continuamente cangiante e per sopravvivere devono impetrare l’aiuto divino trasformando continuamente se stessi e gli altri animali in elementi sacri. Cosa che soltanto il sacrificio, solo la morte, può realizzare. I riti, i combattimenti, le feste, i funerali, hanno dunque sempre al centro il sacrificio umano, compreso quello di guerrieri – e quindi membri dei gruppi dominanti – che si sfidano e i cui perdenti si offrono senza incertezze alla morte rituale. L’obiettivo e il senso di tutto questo è infatti che la Terra continui a vivere, con le sue piogge e la sua fecondità, e che il Sole continui a splendere. Anche la morte degli altri animali non avviene nelle anonime e terribili catene di montaggio dei macelli contemporanei ma dentro la gloria della Terra e del Sole.

Nel mondo inferiore abitano gli avi, i morti, coloro che rimangono sempre presenti sia con i loro corpi disseccati e non putrefatti sia dentro la memoria dei vivi. Si tratta dunque di un universo verticale, il cui strumento sono i gradini – gradini di ogni forma, natura e simbolo – che li attraversano e li uniscono.

Queste civiltà sono animaliste in un senso assai più profondo rispetto all’attuale significato di tale parola. Gli altri animali infatti esistono, vivono e respirano in totale continuità con l’animale umano. Gli sciamani, incaricati di viaggiare tra la terra, gli inferi e il cielo, diventano felini, giaguari, cervi, serpenti. Animisti ed eraclitei, questi umani esprimono una forza arcaica, ancestrale, fatta di iniziazioni assai dure, che escludono gli inadatti alla vita. Esattamente l’opposto dell’occidente contemporaneo, declinante e tremebondo, che cerca di risparmiare ogni anche piccolissimo ‘trauma’ ai suoi cuccioli, rendendoli in questo modo delle nullità inadatte al travaglio del negativo. E, a proposito di dissoluzioni, con tutta la loro violenza queste civiltà non poterono resistere alla ferocia dei cristiani, la più implacabile che sia mai esistita. Cristiani come i conquistadores iberici, i quali erano appunto animati da uno slancio di conquista che era insieme tradizionale nelle intenzioni – è la forza del cristianesimo vincente – e insieme modernissimo negli strumenti atti a conseguire l’obiettivo.

Di fronte alla pura forza le diverse culture umane, vale a dire le loro feroci e splendenti tradizioni, hanno saputo in qualche modo resistere. È incerto se ne siano capaci rispetto alle ancor più potenti sirene rappresentate dal digitale e dalla Rete che appunto avvolge nelle sue spire non soltanto lo spazio ma anche il tempo, rischiando in vari modi di cancellarne identità e struttura.

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