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L’intervista di Christopher M. Gérard: «Nicolás Gómez Dávila, l’antimoderno»

L’intervista che segue è a cura dell’amico del G.R.E.C.E. Italia Christopher M. Gérard, romanziere, editore e critico letterario belga, pubblicata sulla “Revue Revue générale réflexion et culture” N.2 – estate 2021. A rispondere alle domande di Christopher M. Gérard è Michaël Rabier, dottore in filosofia e membro associato del Laboratorio Hannah Arendt (Lipha) dell’Università di Parigi XII, autore de “Nicolás Gómez Dávila, penseur de l’antimodernité: Vie, oeuvre et philosophie”, pubblicato in Francia dalle Éditions L’Harmattan, il 23/12/2020. Christopher M. Gérard è stato anche editore e direttore della Rivista Antaios in continuità con l’omonima Rivista fondata da Ernst Jünger e Mircea Eliade dal 1959 al 1971.

Michaël Rabier

Nicolás Gómez Dávila, l’antimoderno

Intervista raccolta da Christopher Gérard

La pubblicazione di una rimarchevole biografia di Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), il Nietzsche colombiano, è l’occasione per ritornare a un pensiero volontariamente anacronistico, che lui stesso definisce come «l’asilo di tutte le idee vietate dall’ignominia moderna». Nato in una famiglia benestante di Bogotà, Gómez Dávila conduce una vita come una sorta di Montaigne andino, libero da ogni obbligo professionale e spendendo il suo tempo tra la lettura e la scrittura al riparo di una favolosa biblioteca. Il francese fu la seconda lingua di quest’uomo che si diceva essere «uno scrittore francese di lingua spagnola»: trovava la sua ispirazione in Laclos, Chamfort, Madmae de Staël. Ai suoi occhi, «una grammatica insufficiente prepara una filosofia confusa».

Michaël Rabie, laureato in filosofia, membro associato del Laboratorio Hannah Arendt dell’Università di Parigi XII, per la sua brillante tesi, ha tradotto tutte le opere di Dávila, e in particolare i duemila aforismi componenti In margine a un testo implicito.

Il lavoro di Michaël Rabier rappresenta una summa di un’opera insolita e segreta, destinata a sabotare il mondo moderno, e composta per la maggior parte da scoli di un enigmatico testo implicito… mai citato. Lo scolio fa riferimento alla tradizione antica e medioevale di quelli scribi che redigevano, per chiarirli, note a margine dei manoscritti.

In effetti, Gómez Dávila, patrizio poliglotta e bibliofilo ha, nel corso di un’intera vita dedicata alla lettura e alla riflessione, composto un’immensa mole di commentari sulla tradizione europea, che egli interroga e sintetizza in forma di aforismi cesellati, spesso folgoranti, a volte sarcastici e testimonianti di un sovrano disprezzo dei convenevoli: «Al reazionario è solamente possibile profferire sentenze brusche, che il lettore non digerisce».

Quest’uomo ai margini («Chi rispetta sé stesso non può vivere oggi che solamente negli interstizi della società») stimola la riflessione sul nostro mondo; aiuta a resistere all’addomesticamento degli spiriti. Per lui la filosofia deve permettere di dire verità che sono disapprovate da una società tentata di tiranneggiare il pensiero: «Chi diverge radicalmente non può argomentare, ma affermare». Cattolico nel senso Romano, alla maniera di Gustave Thibon, Gómez Dávila difende un pensiero antimoderno che tende ad «accettare l’inevitabile nobilitandolo», mentre lo spirito moderno lo nega degradandolo. Si pone decisamente agli antipodi dell’illusione e dell’utopia: «Il reazionario non vuole una vana restaurazione del passato, ma un’improbabile rottura del futuro da questo sordido presente».

Christopher M. Gérard

Christopher Gérard: Chi è dunque questo pensatore che alcune persone hanno soprannominato il Nietzsche colombiano? Qual è secondo te la sua importanza?

Michaël Rabier: Nicolás Gómez Dávila si è presentato come un uomo estraneo al suo tempo e al suo Paese: «Canonico oscurantista del vecchio capitolo metropolitano di Santa Fe, forte devoto di Bogotá, rude proprietario terriero della Savana, siamo della stessa razza. Con i miei attuali compatrioti, condivido solo il passaporto» ha confessato, lui che era molto avaro di informazioni sulla sua vita personale. È un uomo quasi senza biografia. Erede dell’alta borghesia commerciale di Bogotà, cresciuto nella Parigi degli anni Trenta, fervente ellenista e latinista, appassionato di lettura, ha trascorso quasi tutta la sua vita, e soprattutto le sue notti, chiuso nella sua immensa biblioteca. Ha annotato in diari le sue riflessioni nate dalle sue varie letture, in diverse lingue, principalmente in francese, tedesco, inglese, italiano. Si dice che prima di morire abbia imparato il russo e il danese per leggere Berdyaev e Kierkegaard in lingua originale. Secondo me, è un umanista europeo perso nel XX secolo colombiano. Direi anche un moralista francese di lingua spagnola, come Cioran era un immoralista rumeno di lingua francese, in esilio dai loro tempi. Questi due autori condividono con Nietzsche, oltre all’ammirazione per il classicismo francese, il senso dello stile e la provocazione intellettuale, mucrones verborum. La sua importanza risiede nel suo lavoro unico in quanto riassume e concentra lo spirito della filosofia non sistematica e quindi antimoderna. Si riallaccia alla tradizione dell’antica philosophia moralis, inaugurata da Socrate e proseguita fino a Cioran, che eguaglia non solo nel pessimismo ironico, persino sarcastico, ma anche nella folgorante profondità e nell’eleganza pungente. Mi stupisce che per questi motivi non abbia tanto attratto i lettori francofoni. Senza dubbio dimostra di essere troppo radicale nelle sue critiche al mondo moderno…

Christopher Gérard: Qual è il lignaggio filosofico (o antifilosofico?) di questo pensatore originale, che peraltro sceglie una specifica modalità espressiva – lo scolio?

Michaël Rabier: Usando le sue stesse parole, i suoi «santi protettori» sono Montaigne e Burckhardt. Come loro, ammira la Grecia e lo spirito rinascimentale. Dal primo prende in prestito lo scetticismo filosofico; dal secondo, lo scetticismo politico. Insomma, un anti-progressismo che lo ricollega alla linea del contro-illuminismo, per dirla con gli anglosassoni, e del conservatorismo filosofico o «antifilosofico» per dirla con i controrivoluzionari.

Il termine «scolio» (scholia) deriva dal greco skhólion, quest’ultimo derivante dal termine skholế e significa «occupazione studiosa», attività dedita allo «studio». Per estensione, i Bizantini chiamavano i loro commenti ai testi scholia nel senso di «note a margine di un testo», mentre gli Antichi li chiamavano hypomnemata. Ma lo sviluppo più importante nella storia dei commentari avviene nel Medioevo, quando, con la comparsa del codex, il quale lascia più spazio del volumen (papiro), i commenti letterari si trasformano in scholia. Modello che poi si sviluppò durante il Rinascimento e si emancipò allontanandosi sempre di più dal testo commentato per diventare un testo a sé stante.

Gómez Dávila si iscrive quindi in questa linea, antica e medievale, anche umanista (nel senso di «umanistica»), di raccolta di pensieri passati, commentando l’eredità della cultura occidentale dalle sue vestigia. È quindi anche opera di lettore e di passatore, attraverso il ricorso a citazioni, allusioni, parafrasi o pure e semplici mutuazioni, alla maniera di Montaigne, da autori della tradizione filosofica e della letteratura europea. Di conseguenza non ha pretesa di originalità o meglio di novità, pretesa tipicamente moderna. E nonostante ne abbia, è anche in linea con i «pensatori lampo», come definisce George Steiner, Eraclito, Wittgenstein e persino Gustave Thibon, Simone Weil, passando ovviamente per i moralisti francesi, i romantici tedeschi, Schopenhauer, Nietzsche, ecc. L’opera scoliastica di Gómez Dávila costituisce dunque, a mio avviso, un palinsesto filosofico, il nostro autore riscrive sulla pergamena della tradizione filosofica occidentale – il «testo implicito» che completa il suo titolo – in modo totalmente presunto e addirittura rivendicato: «Siamo libreschi», scrive, «ciò vuol dire che sappiamo preferire alla nostra limitata esperienza individuale l’esperienza accumulata in una tradizione millenaria».

Christopher Gérard: In che modo questo avversario della modernità definisce il nostro mondo e di cosa lo biasima?

Michaël Rabier: Lo definisce in effetti come una rottura con questa tradizione. La modernità per definizione è il culto del nuovo, della moda (modus), di «quello che è appena successo», del «presentismo» o peggio, per usare un neologismo di Pierre-André Taguieff, del «mobilismo» (bougisme). In questo senso non è affatto segno di «moderazione» (altro senso del termine secondo Brague in Modérément moderne) o di misura, ma, al contrario, di eccesso e dismisura. In effetti, Gómez Dávila lo descrive sia come un’eresia filosofico-metafisica sia come un disastro etico ed estetico. La modernità si fonda anzitutto, secondo lui, sul rifiuto radicale e quindi fondamentale di considerare l’uomo come creatura. Questo è un atteggiamento neo-gnostico sviluppatosi in certe correnti devianti della gnosi a partire dal I secolo, si ritrova nelle prime eresie cristiane come l’arianesimo, poi il pelagianesimo, per poi riapparire nelle rotture teologiche medievali e nelle rivoluzioni filosofico-politiche che ispirano e attraversano l’umanesimo moderno, in particolare quella tappa importante dell’accelerazione del suo progetto di emancipazione dell’uomo, che è rappresentato dall’illuminismo tedesco e francese. Si tratta di un umanesimo prometeico che rivendica antropologicamente sempre più il suo primato: l’uomo non creato ma creatore di sé stesso.

In questo senso, la modernità persegue «il lungo confronto tra la misura e la dismisura che ha animato la storia dell’Occidente fin dal mondo antico» (A. Camus), cioè l’elleno-giudeo-cristiano contro il neo-gnostico-manicheo, secondo Gómez Dávila. Antigone contro Prometeo, cioè tradizione consapevole contro rivoluzione permanente, lo spirito mediterraneo basato sull’accettazione della tensione concreta e complessa dell’esistenza umana contro l’«ideologia tedesca» che cerca di semplificarla e trasformarla in nome di assoluti, e falsamente emancipatori, ma che sono di fatto il segno di un disprezzo per la realtà, quindi di un odio del mondo a vantaggio dell’aldilà salvifico: utopie sia pseudo-mistiche che socio-politiche che sfociano in ogni forma di totalitarismo.

Christopher Gérard: E’ un reazionario autentico o un semplice conservatore?

Michaël Rabier: L’uno non esclude l’altro! O più precisamente, l’uno dovrebbe portare all’altro: «Se il reazionario non si sveglia conservatore, è perché in realtà era solo un progressista paralizzato». L’autentico reazionario sarebbe quindi, secondo lui, un conservatore sveglio, e il progressista un conservatore dormiente, cioè uno che non sta più in guardia. Perché, se c’è davvero una virtù che trova in un conservatore, è quella di essere «il contrappeso alle stupidaggini del giorno» e non la Bella Addormentata che crede nell’affascinante Progresso o sogna un domani che certamente lo deluderà. Si capisce perché il reazionario in questo meraviglioso racconto della modernità passi per la fata Carabosse: colui che impedisce di dormire sereni.

Più seriamente, il reazionario «autentico» è un conservatore coerente, lucido, che prende atto dell’impossibilità, da un lato, di fermare il progresso, e dall’altro, di tornare indietro. «Burke potrebbe essere un conservatore. Il progresso del progresso ci costringe ad essere reazionari».

Ecco perché, e questo è un bene, secondo me il suo «reazionario autentico» assomiglia più al Buddha. Un nonviolento che viene portato all’inazione, perché ogni azione o reazione politica reale (in questo senso non autentica) deve per definizione essere violenta per cambiare il corso della Storia; così rivoluzionario o controrivoluzionario, sembra si riducano alla stessa cosa. Giacobini rossi o bianchi sono la stessa cosa: «Il reazionario che cerca di governare in tempi democratici svilisce i suoi principi imponendoli con procedimenti giacobini. Il reazionario non dovrebbe lanciarsi in avventure, ma attendere un cambio dello spirito. Per questo è un contemplativo, un «contemplatore solitario» alla maniera di Jünger, il secondo Jünger, un anarca non un enarca, e ancor meno un attivista nichilista o suicida.

(Traduzione a cura di Manuel Zanarini)

Informazioni:

Michaël Rabier

Nicolas Gómez Dávila, penseur de l’antimodernité: Vie, oeuvre et philosophie

L’Harmattan, Collana «Theôria», 14/12/2020.

Ppgg. 384, euro 38.

«Il filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) ha sviluppato, lontano dall’Università, un corpus di opere costituito principalmente da cinque volumi di aforismi raccolti sotto l’enigmatico nome di “Escolios a un texto implícito”. Nonostante la loro dispersione tematica, si tratta in realtà di un’unica opera continua, quasi una suite nel senso musicale del termine, composta da brevi variazioni su problemi ricorrenti della filosofia occidentale ma che sviluppa soprattutto un’interrogazione sulle conseguenze del progresso e una critica ai fondamenti della Modernità. Quest’opera ricolloca il pensiero del «Nietzsche colombiano» nel contesto della philosophia perennis e ci aiuta a capire perché fu ammirato da García Márquez, Mutis, Jünger e Simon Leys».

Nicolas Gómez Dávila, penseur de l’antimodernité: Vie, oeuvre et philosophie

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