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Antropologia Storia delle Religioni

Mircea Eliade: alchimia babilonese ed India interiore

Illustrare l’«eterna passione dell’anima: unificare il Reale lacerato dalla Creazione (…), questo gesto spirituale tanto oscuro che precede ogni simbolo, ogni mito, ogni cultura». Questo, in ultima analisi, il fine perseguito dallo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) nella sua intera opera – e nel saggio Cosmologia e alchimia babilonesi, da cui proviene la citazione riportata. L’importanza di questo saggio travalica il campo dell’assiriologia – disciplina che Eliade mai approfondì accademicamente – per assurgere a exemplum metodologico di un nuovo modo di guardare ai fenomeni. Da questo punto di vista, risulta illuminante la Prefazione al saggio, nella quale Eliade precisa, in polemica con taluni critici della sua opera, come l’argomento settoriale, “specialistico”, della sua erudita trattazione sia soltanto un ambito esemplare a cui applicare «un metodo per certi versi rivoluzionario, che può rivelarsi estremamente fecondo nella filosofia della cultura». Di quale metodo si tratta? Esso si fonda, spiega Eliade, sulla convinzione che «con ogni nuova scoperta fondamentale l’uomo non si limita ad ampliare la sfera delle sue conoscenze empiriche e a rinnovare i suoi mezzi di sostentamento; egli scopre altresì un nuovo livello cosmico, sperimenta un altro ordine di realtà». Tutte le esplorazioni umane, pertanto, anche le più quotidiane e apparentemente profane, portano con sé una venatura simbolica che non può essere ridotta né a tassello di una lunga catena meccanica e causale, come vorrebbe lo storicismo, né a stadio ingenuo e superstizioso dello sviluppo scientifico, secondo il dettato di certo scientismo obiettivista. Se «la scienza moderna ha orgogliosamente ignorato il significato cosmologico e il valore sperimentale di tali scoperte», Eliade pone al centro della propria ricerca precisamente quell’esigenza spirituale che conduce l’uomo a interrogarsi radicalmente su quella scissione originaria che anima il cosmo, e a tentare, con gli strumenti del rito, del mito e del simbolo, di farsene carico e porvi rimedio.

In Cosmologia e alchimia babilonesi questa metodologia viene applicata allo studio dell’alchimia e, più in generale, del valore simbolico e religioso della metallurgia, nella cultura babilonese. Il saggio si inserisce in un più ampio percorso di ricerca: pubblicato in romeno nel 1937, segue L’alchimia asiatica (1935, dedicata all’India e alla Cina) e precede il più maturo Forgerons et alchimistes (1956). La tematica dell’alchimia, che Eliade riconosce quale pratica spirituale e soteriologica, del tutto distante dalla chimica scientifica, che ne oblia la natura di esperienza mistica e simbolica, si innesta d’altra parte nella più ampia indagine compiuta da Eliade nell’arco della sua intera speculazione: il tentativo, insieme fenomenologico, comparatistico ed ermeneutico, di identificare i nuclei simbolici comuni a tutte le religioni. Sotto questo profilo, Cosmologia e alchimia babilonesi anticipa numerosi fra i temi che saranno più metodicamente affrontati nella sua opera più celebre, il Trattato di storia delle religioni, uscito nel gennaio del 1949. Sebbene alcune delle nozioni ermeneutiche fondamentali dell’Eliade maturo – quali quelle di morfologia del sacro, dialettica ierofanica, mito come storia esemplare, “nostalgia del Paradiso”, distinzione fra tempo sacro e profano – non siano ancora state esplicitate, si mostra già con evidenza la forza della consapevolezza metodologica eliadiana. Essa difatti conduce alla scoperta di alcuni archetipi religiosi fondamentali: l’omologia tra il Cielo e il Mondo, secondo cui tutto ciò che esiste sulla terra esiste pure in Cielo e viceversa; il simbolismo del Centro (cosmico e, insieme, interiore); l’affinità fra le figure del trono, del tempio e della montagna cosmica, in connessione all’Axis Mundi e all’Albero della Vita; infine – ma l’elenco potrebbe continuare a lungo – il significato simbolico delle pietre, cui nel Trattato dedicherà un intero capitolo (il sesto) alla luce delle ierofanie telluriche. Eliade tenta così di fornire al lettore un quadro comprensibile di una civiltà arcaica e affascinante: la pianta della città di Ninive, i fiumi Tigri ed Eufrate, le iscrizioni cuneiformi, le ziggurat, tutti questi elementi vengono mostrati nel significato che gli antichi sperimentavano in essi, nella loro intima connessione col divino. Fine ultimo di questa spiritualità tradizionale, peraltro comune a tutte le altre, sarebbe la realizzazione mistica e rituale che permette la connessione fra microcosmo (umano) e macrocosmo (cosmico), sanando quella dia-bolica – così direbbero i mistici – scissione originaria.

Una ricerca che Eliade ha condotto parallelamente nel mondo indiano, nei suoi studi sullo yoga. Dagli anni della sua tesi di dottorato in filosofia (sostenuta a Bucarest nel giugno del 1933 e in seguito pubblicata con il titolo Psicologia della meditazione indiana) Eliade è ripetutamente tornato su questo tema. Lo ha fatto con il suo Yoga. Essai sur les origines de la mystique indienne, del 1936, seguito da altre ricerche complementari che lo hanno consacrato nel pantheon degli studiosi di religioni indiane: Techinques du Yoga (1948), Le Yoga. Immortalité et liberté (1954), Patañjali et le yoga(1962).

In Psicologia della meditazione indiana il tema emerge in una prosa forse a tratti ingenua, ma che riecheggia ancora della potenza estatica del viaggio in India con cui Eliade volle studiare lo yoga e il tantrismo nel loro contesto asiatico – anche attraverso l’apprendimento del sanscrito – e nella prospettiva (comparata) della storia delle religioni.

Un viaggio reso possibile dalla consapevolezza eliadiana di essere ormai custode di un’India interiore, scoperta sullo sfondo di una passione, tutta romantica, per le discipline “sotterranee” della cultura europea e per temi poco esplorati degli universi “esotici”, quali l’alchimia asiatica e il tantrismo.

Un’esperienza di studio – presso Surendranath Dasgupta – e di pratica di hatha-yoga – nello Svarga Ashram, vicino Rishikesh – che segnarono profondamente l’esperienza del giovane Eliade, condensandosi, sul piano editoriale, in un’intensa attività di pubblicazioni divulgative, ma anche specialistiche, prevalentemente di argomento orientalistico. Si trattò di un florilegio di studi volto a diffondere in Occidente le conoscenze acquisite e a guadagnare progressivamente, in Europa, lo status di specialista della cultura religiosa indiana. Ma fu anche, in senso più contingente, un’esperienza redazionale che correva in parallelo agli studi accademici di Eliade, che nel 1933 si trovò a discutere la propria tesi di dottorato. Al centro di quest’ultima lo yoga, inteso nella sua duplice valenza: nel senso più ampio di unione col divino, in riferimento alla totalità delle vie spirituali indiane, e in quello più specifico di sistema filosofico (darśana) fondato sugli insegnamenti di Patañjali.

La tesi fondamentale proposta da Eliade è che all’interno dello yoga siano posti in relazione dialettica due componenti fondamentali della spiritualità indiana – e universale, si potrebbe aggiungere: la magia e il misticismo. Lo yoga raduna cioè nella propria essenza una corrente religiosa e devozionale, dai tratti teistici, e un approccio più radicale, di tipo magico, orientato alla conquista della liberazione tramite un’esperienza individuale, priva di condizionamenti. Queste due forme non si danno mai in modo puro, ma sempre storicamente condizionato, spurio pertanto. Lo yoga, tuttavia, mostra con chiarezza la propria essenza magica laddove «accetta un universo magico, una relazione infinita tra forze concrete, orchestrate da una legge oggettiva, il karma, e allo stesso tempo sostiene la possibilità di superare quest’universo attraverso isolamento e dominio». La pratica meditativa è lo strumento principe della conquista di tale autonomia spirituale. La meditazione yogica infatti, come ben intuì Julius Evola, è pratica generatrice di potenza, una potenza addirittura superiore alla forza karmica. Questa prospettiva, verso cui Eliade mal cela una profonda fascinazione, tende storicamente a perdersi nella cultura indiana: «Sarebbe interessante seguire la rivolta dello spirito indiano contro la struttura magica dell’ascetismo e della meditazione. La scoperta degli dèi personali, la scoperta dell’esperienza mistica (bhakti), in una parola l’instaurazione della preghiera al posto dell’ascetismo (…) indicano altrettante tappe nella sostituzione della meditazione ascetica, magica con l’esperienza diretta, religiosa, dell’esistenza fiduciosa nella liberazione tramite la grazia divina, e della gioia dell’identificazione col Dio».

Eliade persegue una comprensione autentica della pratica yogica, contro le interpretazioni occidentaliste, maschera e volto di uno spiritualismo contemporaneo prêt-à-porter. I tratti solo superficialmente superomisti e individualisti presenti in certe letture dello yoga vengono così smascherati da Eliade, che spiega come «le lodi più grandi si devono tributare non allo yogin, completamente distaccato dai dolori e dalle gioie mondane, ma a colui che considera come proprie il dolore e la gioia altrui (…). Dopo che l’attività psichica individuale è distrutta e i limiti – creati dall’ignoranza e dalla sete della vita – crollano, si plasma una nuova coscienza, sovra-individuale, in cui la sensibilità e i nuclei volitivi non sono più alimentati dall’interesse egoistico, ma dall’amore per tutti gli esseri».

Un passaggio che, non a caso, viene colto dallo stesso Julius Evola – che con Eliade intrattenne un interessante scambio epistolare – discutendo dell’Individuo Assoluto: «Ad un tale livello vi sarà un moltiplicarsi dell’Io e un suo rimanere, nel contempo, identico a sé stesso; e l’Io, l’Unico, potrà sentirsi indifferente quanto al suo “luogo”, vale a dire, cessa di esser legato quanto al particolare soggetto e alla particolare autocoscienza» (Teoria dell’Individuo Assoluto).

Con la sua costante ricerca, lungo i sentieri della realizzazione, Eliade ha dunque cercato di seminare, tanto in ambito accademico – si pensi ai suoi corsi a Bucarest, Parigi e soprattutto (dal 1956 in poi) a Chicago – quanto extra-accademico – si consideri l’attività pubblicistica e la produzione letteraria – i germi culturali che preparassero l’avvento di quel Nuovo Umanesimo da lui tanto auspicato. Capace di riunire il sapere scientifico moderno e le esigenze spirituali e simboliche in un’antropologia organica e integrale. Cosmologia e alchimia babilonesi e Psicologia della meditazione indiana sono degli snodi, singolari e intriganti, lungo questo percorso.

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