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Teatri del profondo e Teatri d’abitudine

I teatri sono stati tra i primi luoghi pubblici a chiudere. Non è la prima volta che il mondo del teatro si ferma a causa di una epidemia. Già Shakespeare si era ritrovato a scrivere alcuni dei suoi capolavori in quarantena, come conseguenza della peste che colpì Londra tra XVI e XVII secolo. All’epoca dev’essere stato davvero difficile comunicare, chiusi in casa. Invece adesso abbiamo Zoom, Skype, Google Meet e tutti gli altri. Ma il teatro è (ancora) in crisi? Al di là dei problemi economici dovuti al particolare momento che viviamo, quale è lo stato dell’arte? Proviamo a fornire qualche chiave di lettura.

Cerchiamo di guardare al movimento teatrale in Italia degli ultimi anni. Il teatro sembra (ancora) percorso dalla contrapposizione fra “tradizione “e “avanguardia “. E’ la lettura più facile, più grossolana. La reale dinamica storica si svolge invece (dal 1970 ad oggi) fra sistemi teatrali unificati a livello nazionale, ed enclaves, eccezioni, isole non isolate. La comprensione di questa dialettica è essenziale se si vuole pensare la politica teatrale d’oggi ed il problema dell’indipendenza. Le due forze che realmente si scontrano al di sotto dei veli teorici e di gusto, al di sotto delle scaramucce fra poetiche e teoresi avanguardistiche o no, sono quelle di chi pensa ad una riorganizzazione generale e messa in crisi del sistema teatrale, e quelle di chi invece persegue il mantenimento dello status quo.

Ci sono tante comunità teatrali nel Paese dove si pratica un teatro necessario per luoghi piccoli, angusti, per spettatori– talpa, per scatti di coscienza e di consapevolezza. In queste comunità si costruisce un rapporto con un interlocutore privilegiato: lo spettatore “che cerca”, ovvero quello che non si riconosce negli standard di un’offerta culturale istituita per assecondare quella domanda di un teatro d’abitudine che conserva i repertori. E’ lo spettatore che cerca di conoscere il teatro, cosa ben diversa dal “riconoscerlo”, secondo il principio psicologico rassicurante sul quale si fonda la programmazione dei soliti testi, magari interpretati da qualche attore noto, a sua volta riconoscibile.

Al centro del loro impegno queste realtà teatrali hanno posto la ridefinizione della posizione del teatro rispetto all’intera comunità, elaborando percorsi che provano continuamente a ri-collocare l’arte del teatro rispetto alle persone.

Se proprio dobbiamo definirle, queste comunità teatrali indipendenti fanno un teatro “pensato in grande ma fatto in casa”. Questa definizione (presa in prestito dal Prof. Ferdinando Taviani che, nel 1995, provava a definire culturalmente alcune esperienze teatrali indipendenti) riesce più di altre a rappresentare le avventure artistiche di cui stiamo parlando.

Ed è la categoria del “fatto in casa “che ci sta più a cuore, quella che più ci piace e ci diverte nel gioco di rimandi e libere associazioni tra teatro e cucina. Il sapere tramandato, il rigore del fatto a mano, i prodotti della terra, i tempi del cucinare, la reinvenzione delle ricette con quel poco che si ha in dispensa, il rito del pasto, la consapevolezza di mangiare un piatto veramente unico, di produzione limitata e distribuito innanzitutto a chi desidera stare insieme e così via dicendo. Il parallelismo tra cucina casalinga e arte scenica, a nostro avviso, inquadra con una certa efficacia la situazione di quei teatri indipendenti che vivono ai margini del sistema teatrale e che lavorano per intercettare un nuovo pubblico. Questi teatri fatti in casa sviluppano progetti artistici che vivono nell’artigianato attorale, nella qualità di intelligenza e provocazione delle visioni elaborate, nelle quotidiane costrizioni di ogni tipo che sono chiamati inevitabilmente a ribaltare in creatività, la creatività dei corpi e dei segni. Un teatro pensato in grande ma fatto in casa.

Il Teatro pubblico in Italia è quasi esclusivamente messa in scena, interpretazione di testi. Il suo rinnovamento non dipende dal fatto che si rappresentino testi novecenteschi invece che testi ottocenteschi. Non si vuole dire che la messinscena non sia interessante, ma si pensa che oltre alla messa in scena di testi bisognerebbe considerare altri procedimenti.

La composizione, per esempio. Molti autori praticano da tempo procedimenti compositivi. La composizione, più della messinscena, valorizza il lavoro di attori, scenografi, musicisti, fino a comprenderlo nel procedere teatrale invece che come supporto alla parola. Operare per composizione favorisce i contatti con gli altri linguaggi, ma non ha niente da spartire con l’interdisciplinarità. L’interdisciplinarità è un equivoco che tende a confondere la specificità dei linguaggi, la composizione rispetta le differenze, ne ha bisogno: solo cerca di comprenderle. E’ attraverso la differenza tra linguaggi, la precisa consapevolezza dei caratteri di ognuno, che si possono trovare vicinanze, attinenze, affinità. Un teatro della comprensione opera per affinità.

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