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Sociologia

Disintermediazione e lavoro: quale futuro?

Il lavoro ricopre da sempre un ruolo fondamentale nella costituzione e articolazione tanto di una società quanto dei singoli che la compongono. Delineare la storia della declinazione che il lavoro ha assunto nel corso della storia richiederebbe un libro intero, ma, a grandi linee, ci si è sempre mossi tra due poli: dominio del più forte, spesso il più ricco; unità dei lavoratori come potere di mediazione. Il caso storico più eclatante, ovviamente scorrendo a grandi linee per esigenze di brevità, lo possiamo trovare nella servitù, all’interno della quale, pur essendo in presenza di un vincolo di fedeltà col suo padrone, lo schiavo è un singolo non in grado né di realizzarsi attraverso il proprio lavoro né di contrapporsi al potere assoluto che deve subire. Si passa poi al Medioevo caratterizzato dalle corporazioni, le quali non solo rappresentano un modo di dare una valenza spirituale al lavoro (ognuna di esse ha un Dio protettore e prevede insegnamenti esoterici), ma anche di tramandare la sapienza ai giovani e formare il primo corpo intermedio tra il signore e il singolo. In questo periodo, il lavoro non viene visto solo come mezzo di sopravvivenza ma anche come mezzo per “elevarsi” spiritualmente e raggiungere un alto riconoscimento sociale. Tale concezione la troviamo anche presso le corti rinascimentali, dove gli artisti creano delle “scuole” grazie ai mecenati, creando generazioni sempre nuove. Possiamo fare un rapido balzo alla Rivoluzione Industriale e alla nascita dei grandi agglomerati produttivi. Con questo stravolgimento, l’opera dell’artigiano, attraverso la quale, ripeto, il singolo si realizza e si eleva, viene sostituita dal lavoro meccanico e impersonale dell’operaio. Si assiste alla nascita di città che si formano attorno alle industrie (tipico il caso di quelle nel Regno Unito), come una volta i villaggi si sviluppavano attorno al castello del signore, dato anche che i lavoratori vengono impiegati fin da bambini giorno e notte attaccati alle macchine. Scompare definitivamente la realizzazione del lavoratore attraverso la propria opera, fenomeno che Marx definirà “alienazione”. Il lavoro diventa una mera merce messa sul mercato a favore del contraente più forte, l’imprenditore, che sfrutta la manodopera, il contraente più debole, al massimo. Si torna a uno squilibrio totale del potere tra industriali super potenti e operai isolati e sfruttati a tal punto da mandare in fabbrica/miniera i propri figli. Situazione analoga nelle campagne, dove, in realtà si è rimasti quasi a livello di schiavitù sotto i latifondisti. Attraverso le lotte di fine ‘800 – inizio ‘900, i lavoratori si organizzano e creano gruppi intermedi, i sindacati (più o meno rivoluzionari) che non solo hanno lo scopo di tutelarne i diritti, ma anche cercare uno sviluppo personale del singolo lavoratore/bracciante. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai corsi per insegnare agli analfabeti a leggere e a scrivere. Tali rapporti di mediazione tra potere economico-politico, quest’ultimo sempre rappresentante i rapporti di forza economici, e il singolo lavoratore seguono sostanzialmente questo schema fino a tempi molto recenti (ad esclusione della relativamente breve parentesi del Fascismo, che tenta di istituzionalizzare tale mediazione attraverso la Camera dei Fasci e delle Corporazioni): sia gli industriali-proprietari terrieri che i lavoratori si organizzano in sindacati o Leghe che abbiano lo scopo di costituire “corpi intermedi” tra lo Stato e il singolo. Quando questa funzione di intermediazione scompare? A seguito delle recenti riforme del mondo del lavoro, da quella Biagi e D’Antona fino al Governo Renzi che nel Jobs Act trae le conclusioni delle opere dei due giuslavoristi, che fanno esplodere il numero dei contratti nazionali, ad oggi in Italia ci sono circa 992 contratti nazionali secondo il CNEL, frammentando in modo mai visto prima il mercato del lavoro. Come se non bastasse, la nuova legge sugli appalti ha prodotto una pletora di subappalti ed esternalizzazioni che hanno frantumato il mondo “aziendale” così come è stato concepito e vissuto da quasi 200 anni. Se a tutto questo aggiungiamo l’abolizione dell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, abbiamo il quadro della totale disintermediazione che il mondo del lavoro sta attraversando. Diventa di fatto difficilissimo per i corpi intermedi, i sindacati, riuscire a rappresentare e quindi tutelare i lavoratori, che si trovano de facto isolati e inermi di fronte a una potenza della forma-capitale talmente imperante e invasiva come non si era mai vista dall’800 del secolo scorso. L’idea del lavoro ha subito una trasformazione radicale, non solo non è più un modo di realizzarsi, ma nemmeno di mantenersi – indicativo il fenomeno dei poveri pur lavorando – fenomeno che in Italia è particolarmente significativo, in quanto siamo l’unico Paese in Europa che negli ultimi 20 anni ha visto decrescere i salari 1. Ma, ed è l’aspetto che qua ci interessa maggiormente, mentre prima sostanzialmente quando si parlava di “lavoratore” si intendeva una persona assunta da un’azienda diretta da una o più persone fisiche, che lavora in un’azienda con un contratto a tempo indeterminato, oggi tutto questo non esiste più. L’accesso al mondo del lavoro stesso avviene quasi esclusivamente in forma precaria e temporanea (contratti a progetto, finti tirocinio formativo, contratto a tempo o a somministrazione) e tale precarietà sarà la cifra perenne della vita lavorativa. Non solo, infatti, l’abolizione dell’Articolo 18 impedisce al lavoratore di tutelare i propri diritti in quanto ricordiamo che a oggi è legalizzato il licenziamento senza giusta causa, vero cappio psicologico, ma la situazione attuale è che all’interno della stessa azienda si trova una pletora di contratti, con diritti e doveri totalmente diversi tra loro, che polverizzano l’unità e la solidarietà tra lavoratori, elementi che sono alla base proprio dell’intermediazione. A questa situazione già drammatica, si aggiunge il fenomeno dell’esternalizzazione, a causa del quale molte attività vengono affidate a cooperative o consorzi, sui quali il controllo delle minime norme di sicurezza e di tutele del lavoro è impossibile. Fenomeno tipicamente italiano è poi quello delle “finte partite IVA” – secondo il MISE in Italia si contano oltre 4,6 milioni di partite IVA, il numero più alto nell’Europa a 28 2 – casi nei quali impiegati che svolgono mansioni secondo le regole di un contratto di assunzione “standard” vengono invece regolamentati come se fossero lavoratori autonomi. Per non parlare di multinazionali, magari di proprietà di fondi di investimento, che hanno sedi lontanissime, cosa che rende impossibile il confronto “fisico” col datore di lavoro, le quali, sfruttando la libera circolazione di capitali e persone, chiudono e delocalizzando aprono fabbriche da una parte all’altra del globo, scegliendo di volta in volta il Paese che garantisce loro maggiori agevolazioni fiscali e minori costi e tutele per quanto riguarda i lavoratori.

A fronte di questo scenario di polverizzazione lavorativa e “tutti contro tutti” tra le fasce più deboli, il problema vero del mondo del lavoro è appunto la totale disintermediazione. Si vedano a tale dimostrazione la assenza o la inutilità degli scioperi, anche generali, organizzati in questi ultimi anni, sia per la pochezza numerica dei partecipanti che per l’impossibilità di formulare richieste valide per tutti i lavoratori. A questo punto sia chi rappresenta i lavoratori per lavoro che chiunque faccia una riflessione sulle problematiche di questo settore fondamentale si trova a un bivio ormai divenuto inevitabile: lasciare che la forma-capitale continui nell’opera di demolizione di ogni forma di strutture intermedie che possano agire da argine al suo strapotere, in una lotta di classe combattuta solo dalla classe industriale, per inesistenza della classe lavoratrice; oppure, ripensare il modo di organizzare i lavoratori. Come abbiamo dimostrato, il modello “operaistico” eredito dal modello fordista non è applicabile al contesto post-moderno in cui ci troviamo. Come detto da Maffesoli, e riportato in una sua intervista da noi tradotta e pubblicata 3, il lavoro non è più una parola chiave per le nuove generazioni, è quindi necessario trovare un nuovo modo di aggregarle e di rappresentarle. Lo strumento sindacale come lo abbiamo conosciuto fino a oggi non è adeguato a tale compito proprio perché non contempla un’azione che sostanzialmente esuli dal contesto della fabbrica, mentre i giovani e i lavoratori in generale sono altrove. La risposta, all’interno di un mercato estremamente liquido per dirla con Bauman, è quello di ripartire dalle Comunità e dalle Corporazioni locali. E’ fondamentale che le scelte su cosa e come produrre non vengano più prese dal mercato, ma siano le Comunità coinvolte a deciderlo (si pensi ad esempio al caso ex ILVA di Taranto), perché bisogna che decida chi subisce le conseguenze di queste scelte; è necessario ridurre la filiera tra produttori e consumatori, in modo da avere economia di scale resilienti e compatibili con un sistema a risorse finite; riavvicinare il lavoratore/creatore ai risultati della sua opera, dotandola di significati contro l’alienazione della produzione attuale; prediligere sistemi produttivi che siano in armonia e rispettino la Natura in cui ogni Comunità vive, contro gli ecomostri creati da industrie che negli anni hanno devastato interi territori e ridando significato e valore alla Physis che non venga più vista come una banale materia prima; ecc. Insomma, i campi in cui agire sono molteplici, ma solo recuperando il senso della Comunità e dei suoi corpi intermedi (Corporazioni) si può immaginare una rappresentanza del mondo del lavoro che apra nuovi orizzonti nuovi nel deserto della post-modernità.

Note:

1 https://europa.today.it/lavoro/italiani-stipendi-inferiori-1990.html#:~:text=Tra%20il%201990%20e%20il,pari%20al%202%2C9%25.

2 https://www.eunews.it/2020/04/01/italia-repubblica-delle-partite-iva-oltre-46-milioni-lavoratori-autonomi-nessuno-cosi-nellue/128491

3 https://www.grece-it.com/2021/10/20/michel-maffesoli-per-capire-lepoca-contemporanea-e-meglio-abbandonare-la-casa-in-fiamma-della-modernita/

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