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Metapolitica

La crisi di Taiwan e le trasformazioni di un mondo complesso

La piccola Taiwan è diventata il centro del mondo, un nugolo di interessi strategici. Il Ministro degli esteri taiwanese, dichiara che non c’è nessuna intenzione di avviare una guerra contro la Cina ma nel farlo, rivendica l’indipendenza di Taiwan. Pechino da canto suo alza i toni, la Taipei cinese è affare suo. La crisi è incominciata nei primi giorni del mese di ottobre, con l’invio di Pechino di 150 aerei da guerra nello spazio aereo taiwanese. Quattro giorni di tensione che coincidono con la ricorrenza del primo ottobre, la data di fondazione della Repubblica Popolare Cinese.

Un crescendo che porta però dritti ad un paio di settimane prima, precisamente al 15 settembre, il giorno della creazione e della formalizzazione di AUKUS, l’alleanza strategico-militare per la “sicurezza” nell’Indo-Pacifico, siglata da Regno Unito, Stati Uniti e Australia. L’Europa non sta a guardare ma si accoda, cosi dicono, invece di tessere in autonomia dei rapporti di partenariato che esulano dai disegni egemonici del polo atlantico e di quello cinese. Secondo Max Weber, esistono tre tipi di potere: «il potere tradizionale», «il potere legal-razionale» e quello inerente il «carisma».

Discorrendo della UE, manca una visione completa di cosa sia «il potere tradizionale», un potere che poggia su delle usanze esistenti da secoli da cui deriva la sua autorità accettata da tutti – imparare dal passato, farne buon uso per comprendere il presente e chissà, scorgere l’avvenire – ed è totalmente assente se non sconosciuto il potere scaturito dal «carisma»: inteso non come un potere del singolo individuo, nel nostro caso di uno Stato, bensì come l’insieme di un’entità coesa, quello che dovrebbe essere l’Europa, dotata di grande ascendente grazie alla somma delle sue differenze. Questo senza voler ridurre a cosa di poco valore le nazioni, bensì costatando una visione del mondo fortemente caratterizzata da un ordinamento dei «grandi spazi». Carl Schmitt nel suo “Stato, grande spazio, nomos” non ci andò poi così lontano, tutt’altro.

Tutto questo cosa centra con le peripezie di Taiwan, un luogo di 30 mila kmq che ospita una popolazione di 24 milioni di abitanti? In primis, un territorio che si trova ai margini delle rotte del Mar Cinese Meridionale, diviso dalla Cina da uno stretto che lo separa di 180 Km ed al centro tra il nord-est e il sud-est asiatico, nella linea di faglia che separa gli Stati sotto l’influenza cinese e quelli più vicini all’ascendente occidentale. Un’Isola in mezzo alle contrazioni e agli orientamenti politico-economico-sociali della super potenza cinese e, di converso, a quelli vicini «all’occidentalizzazione del mondo» ben descritta da Serge Latouche. Al complesso di quelle forze centripete che contrariamente a ciò che si pensa, agisce anche nel processo di localizzazione del globale.

Ad aggravare le tensioni ed il crescendo della crisi tra Taiwan, Cina e AUKUS, cosa che non accadeva dal lontano 1979, è il ritorno di un piccolo ma significativo contingente di forze speciali USA in loco. L’intento non celato è quello di addestrare l’esercito taiwanese. In realtà, trattasi dell’ennesimo riposizionamento americano in un quadro geografico-strategico che reputano di primaria importanza – una delle tante motivazioni dell’uscita dal vicolo cieco afgano –, facendo di tutto per irritare Pechino che non ha certo tardato nel farsi sentire. Le rotte dell’Indo-Pacifico interessano a tutti, sono per pochi e rimangono interdette ai più. Così vorrebbero le due superpotenze mondiali ma c’è un terzo incomodo, il quale vuole percorrere, a volte in autonomia e altre volte meno, le corsie dell’autostrada d’acqua del commercio internazionale.

Più in generale, stiamo assistendo alla riproposizione di quella dottrina in politica estera degli Stati Uniti, al rassetto del marchio dell’America First. Un isolazionismo interventista che vuole escludere dai giochi la NATO e gli “alleati” europei. Questa sì che è una novità! Bene, dovremmo esserne contenti invece di recriminare un posto sotto le ali “protettrici” dell’Aquila di Mare. A maggior ragione nel momento in cui la tanto bistrattata Europa ne combina una giusta: presentando il primo tassello del progetto denominato Global Gateway, senza troppo badare al nome scelto con l’intento dichiarato di rafforzare la presenza politica, economica e militare, in una regione che produce circa il 62 % del PiL del mondo. Usando una metafora calcistica, lo sgarbo di Washington è senza dubbio un passaggio vincente, volontario o involontario non ha nessuna importanza, che la nomenclatura di Bruxelles fa fatica a comprendere.

In Europa siamo molto lontani dall’auto-sufficienza nella fabbricazione dei circuiti integrati, nonostante ci siano più risoluzioni relative all’importanza del ritorno alla produzione della componentistica primaria e secondaria, mentre Taiwan è uno dei maggiori produttori di semiconduttori. La TSMC, Taiwan Semiconductor Manufacturing Company è la più grande industria al mondo del settore. L’interesse taiwanese, quello americano e la risposta cinese alle richieste di “sovranità” del governo di Taipei, coincidono con gli interessi di un’industria, di uno Stato a cui interessa fare affari e stringere legami con la sfera di influenza maggiormente redditizia: la WaferTech è una controllata del gruppo TSMC con sede a Camas nello Stato di Washington, la TSMC Design Technology Canada è di fatto una costola di TSMC con sede a Kanata in Ontario, una delle tredici province del Canada.

Ad oggi, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company detiene da sola il 50% della produzione mondiale del mercato di semiconduttori, insieme alla coreana Samsung, l’unica multinazionale in grado di fabbricare i 5nm chip – 5 nanometri, l’ultima evoluzione del precedente processo a 7nm – e nel primo trimestre del 2021, ha progressivamente aumentato gli utili ed il peso della preminenza nel segmento di quei chip fondamentali per le nuove e le vecchie forme di tecnologia avanzata. Lo scontro USA-Cina e la scelta di un “campo neutro” quale non è certo Taiwan, impone delle serie riflessioni. La “Chip War” non riguarda solo la componentistica autoveicolare in Italia e in Europa.

La genesi della crisi taiwanese risale al 2020, quando gli USA decisero di aumentare le pressioni sulla TSMC. Una sorta di ultimatum all’azienda cha assomigliava parecchio ad un ammonimento: smettere di fornire chip alle multinazionali tecnologiche cinesi e spostare definitivamente la produzione di chip a scopo militare in America, pensando di risolvere il problema. Cosa che in parte è avvenuta ma non totalmente, come spesso accade nei negoziati e nelle concessioni a questo tipo di multinazionali, per non parlare delle strane triangolazioni contrattuali che dicono una cosa ma sfuggono ad altre.

L’Europa già dal 2020 sta lavorando ad un accordo di investimenti bilaterale con Taiwan, dopo aver quasi definitivamente accantonato quello con la Cina. Ciò a dimostrazione, dobbiamo dirlo, di un lieve incremento delle attività, degli interscambi e delle relazioni della UE in Asia. Certo non aiuta il voler scaricare sulla Cina le proprie manchevolezze, dando la colpa agli ingenti aiuti di Stato del governo cinese alle sue aziende, e, facendo intendere che tale concorrenza riguardi solo le materie prime critiche a discapito dei produttori europei dei magneti permanenti.

In aggiunta, il pensare all’approvvigionamento delle terre rare solo in direzione delle auto elettriche, delle turbine eoliche e per un Green Deal che di fatto spinge in direzione di un “diverso” sistema della competitività, del connubio risibile tra crescita economica – leggasi la ri-finanziarizzazione di un economia ad hoc – e “l’utilizzo moderato” delle risorse offerte dall’ambiente, di un produttivismo digitale eredità ma anche stimolo della Silicon Valley, somiglia tanto ad un problema cha va a sommarsi a quello che è principale. Ai postulati di meno auto di proprietà, tranne quelle immesse in strada dai vari car sharing o bike sharing, dell’uguale se non maggiore utilizzo del litio e del cobalto per i mezzi elettrici, dell’utilizzo a profusione delle terre rare per l’eolico e il fotovoltaico. Contrariamente alla vulgata, invece di avere la presunzione di salvare il pianeta, dovrebbe essere il pianeta a trovare la maniera di salvarsi da noi!

Mentre Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, afferma che l’Unione Europea sosterrà il processo di democratizzazione di Taiwan, la bontà delle scelte intraprese da Taipei, lo Stato di diritto, gli immancabili diritti umani ed una società aperta ed economica di mercato. Pechino risponde senza mezzi termini e le parole del Ministro degli Esteri Wang Yi colpiscono nel segno: «Se le fondamenta non sono solide, la terra tremerà e i monti tremeranno». Dunque, la Cina è disposta a tutto pur di riprendersi Taiwan? Diciamo pure che Ferruccio Michelin, dalle pagine di Formiche, non ha tutti i torti: «Il punto è che la Cina sa che maggiore è il numero di accordi di vario genere che Taipei riesce a costruire sul piano internazionale, maggiore saranno le difficoltà cinesi per riannetterla» (Formiche, “La Cina avvisa l’Ue. Con Taiwan non si tratta”, 30/09/2021).

E se pensiamo alle motivazioni che spingono gli Stati Uniti, uno dei due attori principali della crisi taiwanese, è facile comprendere che non siano poi così diverse. Il terzo incomodo, l’Europa, a partire da settembre 2020 ha presentato un piano d’azione della Commissione sulle materie prime critiche, pensando di aggiornare le politiche industriali in base alla dipendenza da quei 30 materiali e 137 prodotti che sono essenziali per la nostra industria. Il Comitato economico e sociale europeo CESE ha pubblicato un documento, aggiornato il 23/11/2021,comprensivo delle misure volte a colmare le carenze (Critical Raw Materials Resilience: Charting a Path towards greater Security and Sustainability, CCMI/177). Ecco cosa ne pensa Pietro Francesco De Lotto, presidente della commissione consultiva per le trasformazioni industriali del Comitato economico e sociale europeo, dalle pagine del magazine Vita: «per troppo tempo abbiamo lasciato questa problematica al libero mercato e all’industria, sperando che si regolasse da sola».

L’Europa, in verità non tutta, una piccola parte, ragiona e si muove in tre direzioni: a) stringendo o provando ad intessere relazioni multilaterali anche ad Est, in Asia per l’approvvigionamento di materie e prodotti essenziali; b) all’interno dei suoi confini con il finanziamento di progetti e autorizzazioni semplificate a favore delle comunità locali per riuscire a mantenere le capacità estrattive e di trasformazione nell’UE, attraverso una migliore formazione e istruzione dei lavoratori, annunciando degli investimenti sia nella formazione e nella riqualificazione dei lavoratori, sia nell’insegnamento della varie discipline quali la geologia, l’estrazione mineraria, fino ad arrivare ad includere la laurea di primo livello; c) il riutilizzo dell’approvvigionamento secondario dei rifiuti, investendo in ricerca e sviluppo con l’intento di individuare dei potenziali approvvigionamenti di materie prime critiche secondarie, provenienti dalle scorte e dai rifiuti UE.

Un intreccio complesso che non esula dalle ideologizzazioni del Green Deal e che, come abbiamo visto, incomincia a dare alcuni grattacapi alle due superpotenze egemoni. Un flebile sussulto tra l’incudine e il martello, USA e Cina, con tutti i dubbi del caso ma pur sempre un inizio. La crisi di Taiwan, le vicende bielorusse, la questione polacca e lo stallo sul gasdotto Nord Stream II, saranno determinanti per capire lo stato di salute del “Vecchio Continente” che mai come ora si trova davanti a delle sfide epocali. Chiaro è che non sono più concessi tentennamenti, il tempo stringe: l’anglosfera serra i ranghi, i nuovi e vecchi “amici” lo sono stati fin quando non si sono rotti i legacci del sistema delle dipendenze, qualunque esse siano che determinano un amico piuttosto che un nemico.

Avendo bene in mente che questa Unione Europea non è certo l’Europa che tutti vorremmo e che un mondo diviso in due non giova a nessuno. Le relazioni tra Europa, Russia e Cina sono di primaria importanza, purché siano chiari gli obbiettivi in comune che esulano da una possibile cooperazione incentrata esclusivamente sui rapporti energetici, sulle importazioni e le esportazioni di prodotti primari e secondari. Il mondo non è un mercato e non possiamo chiedere al mercato di occuparsi del mondo. È doveroso segnalare, a proposito delle ingerenze estere, il caso italiano che è sempre più a sé, incline qual è a seguire l’osservanza delle regole d’Oltreoceano. Un’Europa che guarda ad Est ma senza alterare, peggio ancora assorbire le culture altrui dimenticando la propria, è possibile. E se il futuro è indubbiamente incerto, la veduta d’insieme è sempre più chiara.

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