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Filosofia Storia delle Religioni

Eschilo, il fondamento

In questo saggio ho tentato di andare alle radici e al fondamento della civiltà europea, di cogliere la potenza dell’elemento sacro nella formazione delle comunità umane e nello stesso tempo capire come sia potuto accadere che un piccolo territorio del mondo, prima la Grecia e poi l’Europa intera, si sia affrancato dalla mescolanza assai rischiosa di religione e diritto, abbia fatto della storia la vibrazione delle vite individuali e di queste vite il senso stesso dell’accadere storico.

Le tragedie di Eschilo (525–456 a.e.v.) permettono di esplorare tale plesso fondativo. Esse ci offrono un dono necessario per capire a fondo la nostra identità e dunque per conservarla e con essa garantire la costanza delle molteplicità su un pianeta e in un tempo che si declinano in forme sempre più monocordi, in espressioni sempre più uniformi, in manifestazioni che in realtà nascondono la profondità delle questioni a favore dello scintillante nulla dello spettacolo.

Spettacolo, certo, sono i testi di Eschilo destinati alla scena. Ma sono uno spettacolo totale e profondo, nel quale la complessità degli eventi e delle anime non si perde. Anzi si raggruma, esprime e trionfa.

Il saggio che segue, è pubblicato sulla Rivista Accademica Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo, Vol.5 – 2022, pagine 3-17, 2022-04-19.

Per leggere gratuitamente la Rivista completa: http://www.mondi.academy/index.php/Mondi/issue/view/6

Abstract

The paper traces the tragedies of Aeschylus in chronological order, trying to show the founding nature of Mediterranean and European civilization. In Aeschylus, in fact, human energy and inevitable fate, Law and Horror coexist. This is one of the most illuminating explanations of human existence.

Keywords

Aeschylus, Greek Tragedy, Civilization, Sacred, Law

Radice e fondamento

Andare alle radici e al fondamento della civiltà europea. Cogliere la potenza dell’elemento sacro nella formazione delle comunità umane e nello stesso tempo capire come sia potuto accadere che un piccolo territorio del mondo, prima la Grecia e poi l’Europa intera, si siano affrancate dalla mescolanza assai rischiosa di religione e diritto. Fare della storia la vibrazione delle vite individua-li e di queste vite il senso stesso dell’accadere storico.

Le tragedie di Eschilo (525–456 a.e.v.) permettono di esplorare anche questo plesso fondativo. Esse ci offrono un dono necessario per capire a fondo la nostra identità e dunque per conservarla e con essa garantire la costanza delle molteplicità su un pianeta e in un tempo che si declinano in forme sempre più monocordi, in espressioni sempre più uniformi, in manifestazioni che in realtà nascondono la profondità delle questioni a favore dello scintillante nulla dello spettacolo.

Spettacolo, certo, sono i testi di Eschilo destinati alla scena. Ma sono uno spettacolo totale e profondo, nel quale la complessità degli eventi e delle anime non si perde. Anzi si raggruma, esprime e trionfa. Proverò dunque a ripercorrere, sia pur brevemente, le sette tragedie che ci sono rimaste. Lo farò tramite l’edizione approntata da Monica Centanni per i Meridiani Mondadori (cfr. nota bibliografica), lo farò a partire dalle parole di Eschilo e dalla loro presenza ora.

Il nomos della terra

Eschilo era un soldato. Ce lo ricorda più volte Monica Centanni e ce lo ricorda la centralità della guerra nelle sue opere. Πέρσαι (Persiani) è il resoconto delle conseguenze e del significato che per l’Ellade e per l’Asia ebbe la distruzione della flotta persiana a Salamina.

Una catastrofe dovuta alla ὕβρiς di Serse, dimentico del nomos terrestre, della prudenza con la quale suo padre Dario aveva rinunciato al tentativo di domare il Bosforo per sottomettere l’Europa all’Asia. Una prudente sapienza che nasceva dal rispetto per «θεόθεν γὰρ κατὰ Μοῖρ ̓ ἐκράτησεν / τὸ παλαιόν; un destino che forte vigeva in antico» (vv 102-103, pp. 20-21) e che i mortali, tutti, debbono sempre avere davanti nel loro scosceso cammino dentro il morire che si chiama vita. Ate, infatti, «βροτὸν εἰς ἄρκυας Ἄτα, / τόθεν οὐκ ἔστιν ὕπερ θνατον ἐξαλύξαι φυγειν; spinge il mortale dentro la rete ben tesa: da là all’uomo è preclusa ogni fuga, ogni scampo» (vv. 99-100, pp. 22-23).

Storica è dunque la prima tragedia che ci sia rimasta dei Greci? Sì, a condizione di non intendere la storia soltanto come un insieme di avvenimenti accaduti e narrati. La storia dei Persiani è infatti costruita su una antropologia sacra, su una teologia che riconosce al di là di ogni volontà umana (‘volontà’ che è una delle maggiori illusioni della cultura venuta dopo i Greci e i Romani) la presenza e la potenza di Ἀνάγκη: «ὅμως δ ̓ ἀνάγκη πημονὰς βροτοῖς φέρειν / θεῶν διδόντων; Necessità [che] costringe i mortali a sopportare sciagure» (vv. 293-294, pp. 36-37).

Ἀνάγκη che salva sempre «πόλιν Παλλάδος θεᾶς; la città della Pallade dea!» (v. 347, pp. 40-41) e rispetta coloro che fanno di sé un modo di σωφροσύνη, una forma della misura dolente dell’esser-ci, evitando per quanto possibile la ὕβρις/tracotanza della quale il persiano Serse è una incarnazione evidente, plastica sino alla disperazione. Contro la dissacrante arroganza del proprio figlio, il fantasma di Dario pronuncia parole che sono greche sino al midollo, lui che è uno dei più grandi sovrani tra i barbari. L’ironia della tragedia, in particolare di questa tragedia, sta anche nel par-lare dei barbari così vicino – identico – alla Stimmung dei Greci.

Sentiamolo dunque questo fantasma di saggezza e di can-to: «ὡς οὐχ ὑπέρφευ θνητὸν ὄντα χρὴ φρονεῖν. / ὕβρις γὰρ ἐξανθοῦσ ̓ ἐκάρπωσεν στάχυν / ἄτης; non deve chi è mortale esser troppo superbo. La superbia dopo il fiore dà frutto: ed è spiga di rovina da cui si miete messe di pianto» (vv. 820-822, pp. 72-73). Da barbaro sapiente, da greco, Dario esorta i suoi antichi sudditi, prostrati sino a un pianto che sembra non conoscere fine, li invita a gustare ancora il frutto di gioia che ogni giorno può aprire agli eventi: «ὑμεῖς δέ, πρέσβεις, χαίρετ ̓, ἐν κακοῖς ὅμως / ψυχῇ διδόντες ἡδονὴν καθ ̓ ἡμέραν, / ὡς τοῖς θανοῦσι πλοῦτος οὐδὲν ὠφελεῖ; E voi, vecchi, fatevi animo: anche nella sventura dovete concedere al vostro cuore un po’ di gioia ogni giorno. Questo serve, e non altra ricchezza, a chi è destinato alla morte!» (vv. 840-842, pp. 74-75).

I Greci i quali «οὔτινος δοῦλοι κέκληνται φωτὸς οὐδ ̓ ὑπήκοοι; si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, sudditi di nessuno» (v. 242, pp. 32-33) hanno ridotto il Grande Re, il Padrone dei persiani, il Signore dell’Asia, alla condizione di uno straccione che con vesti lacere si presenta e non parla, grida soltanto, canta la propria definitiva sciagura mentre ad attenderlo «κακοφάτιδα βοάν, κακομέλετον ἰὰν; è un urlo di morte, un canto di sciagura» (v. 936, pp. 78-79).

Questo avvenne venticinque secoli fa e tali eventi hanno per millenni garantito l’Europa dalla forma totalitaria della politica. Sino a quando al culmine della modernità che non crede nella sacralità del mondo e della materia si è installata e continua a dominare la ὕβρις. Ma tutto si paga, anche nella forma di un microscopico virus.

La terra invisibile

Ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας (Sette contro Tebe) narra un’altra guerra, questa volta tutta interna alla Grecità, a una stirpe paradigmatica, sciagurata e potente.

«Mεσομφάλοις Πυθικοῖς; l’oracolo pizio che sta al centro del mondo» (v. 747, p. 168) ha decretato già da tempi remotissimi la rovina della casa di Laio, di Edipo, di tutti i suoi figli. Per condurre a compimento il proprio decreto, Apollo – «φιλεῖ δὲ σιγᾶν ἢ λέγειν τὰ καίρια; il dio che ama tacere o dire parole opportune» (v. 619, p. 158) – si serve anche della maledizione che Edipo ha scagliato su Eteocle e Polinice, suoi figli e insieme fratelli, suoi eredi senza cura verso il padre. Dopo che Eteocle è venuto meno al patto di alternanza sul trono di Tebe, Polinice muove guerra a Tebe, la città che da se stessa, dalla terra, ha generato gli abitanti/guerrieri. In essa si muovono dunque le forze telluriche più fonde, immortali e potenti: le Erinni, la Moira. Le quali hanno stabilito che sette argivi combatteranno contro sette cadmei. Sei difensori della città sconfiggeranno i suoi assalitori e Tebe sarà salva ma alla settima porta i due fratelli fatali saranno l’uno per l’altro τεθηγμένον, una lama affilata (v. 715, p. 164) che toglierà loro la luce, conducendoli «νύκτερον τέλος; al termine della notte» (v. 367, p. 140), trascinandoli «ἐν ῥοθίοις φορεῖται; nel flusso del niente» (v. 362).

Il niente è uno dei veri e universali argomenti di questa tragedia scandita come un teorema; nel cui titolo compare un numero; nella cui struttura compare la Furia; nel cui andamento compare Ἀνάγκη, l’inevitabile, la necessità, la morte.

«θεῶν διδόντων οὐκ ἂν ἐκφύγοις κακά; quando gli dèi vogliono donarci sciagure, non c’è chi possa sfuggirvi» (v. 719, p. 166) ed è chiaro che la prima sciagura, condizione di tutte le altre, è nascere, è abbandonare il nulla privo di ogni pena, dolore, pianto. È proprio vero che «il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici» (Nietzsche 1872: 32) e al di là degli Olimpi conobbe un dio ancora più enigmatico e potente, un dio che è l’estremo della vita ed è insieme il confine del niente: «ωὑτὸς δὲ Ἀίδης καὶ Διόνυσος; lo stesso sono Ade e Dioniso» (Eraclito 2017: detto 151, DK B 15). Ade del quale il finale non interpolato dei Sette contro Tebe, il finale autentico, costituisce un integrale e necessario trionfo:

πί τυλον, ὃς αἰὲν δι ̓ Ἀχέροντ ̓ ἀμείβεται, [τὰν] ἄνοστον μελάγκροκον ναυστολῶν θεωρίδα τὰν ἀστιβῆ Παιῶνι, τὰν ἀνάλιον πάνδοκον εἰς ἀφανῆ τε χέρσον.

Il colpo del remo che spinge, che sempre trasporta [per L’Acheronte[la] processione senza ritorno, il corteo velato di nero, verso la sponda deserta di sole, dove Apollo non posa [il suo passo, verso la terra invisibile, che in sé tutto accoglie.(vv. 856-860, p. 176).

Così commenta Monica Centanni: «‘Invisibile’ è la terra dell’Ade, contro la visibilità assoluta del dio della luce» (Cen-tanni in Eschilo 2013: 845). A questa luce, a tale quia, è legato il filo della nostra vita, filo fenomenologico che tesse i pensieri invisibili con la forza della materia visibile. Prima che Àtropo ci restituisca all’intero.

La terra ospitale

Più di altre opere che degli Elleni ci sono rimaste, Ἱκέτιδες (Supplici) fa emergere i controsensi di una interpretazione umanistica della Grecità, di letture attualizzanti ed eticamente virate verso l’accoglienza. Nulla in Eschilo c’è che giustifichi una simile interpretazione. Nel mondo greco «l’esilio è considerato una condizione peggiore della morte, perché esclude l’uomo dal suo habitat privilegiato – la città – e lo priva dello statuto di cittadino, necessario al riconoscimento della sua identità» (Centanni in Eschilo 2013: 854).

Le cinquanta figlie di Danao che giungono ad Argo in compagnia del loro padre allo scopo di fuggire alle nozze coatte con i cinquanta cugini figli di Egitto scelgono Argo perché sono discendenti di Io, la principessa argiva amata da Zeus, perseguitata da Era, madre di Epafo, generato in Egitto e loro antenato. Queste ragazze sono quindi parenti dei cittadini ai quali ora chiedono protezione e rifugio. Le Danaidi non sono straniere nel significato odierno della parola. E non rivendicano neppure diritti in quanto donne ma in quanto supplici dell’altare di Zeus, loro avo. Non è la stessa cosa, tanto è vero che esse ribadiscono il fatto che «γυνὴ μονωθεῖσ ̓ οὐδέν una donna da sola non è niente» (v. 749, p. 260) e a proposito dei figli di Egitto arrivati ad Argo per rapirle usano espressioni ‘razziste’ come «μελαγχίμῳ σὺν στρατῷ; un esercito di pelle nera» fatto di «ἐξῶλές μάργον; maledetti e pazzi» (v. 741, p. 258).

A questi neri pazzi e maledetti Pelasgo, re di Argo che ha deciso di acconsentire alle suppliche delle ragazze, si rivolge con parole assai poco ‘accoglienti’, come queste: «οὐ γὰρ ξενοῦμαι τοὺς θεῶν συλήτορας; e infatti io non sono ospitale con chi depreda gli dèi» (v. 927, p. 274).

Per i Greci prima vengono gli dèi e poi gli umani, qualunque umano. Per tutti loro infatti i mali sono e rimangono molteplici e variegati «πόνου δ ̓ ἴδοις ἂν οὐδαμοῦ ταὐτὸν πτερόν; e non vedrai mai gli stessi colori sulle ali del dolore» (v. 329, p. 228). Anche per questo non c’è nulla di ‘umanistico’ negli Elleni.

E si potrebbe continuare nell’analisi testuale che conferma l’insipienza di ogni attribuzione ai Greci di sentimenti e sentimentalismi tipicamente moderni e post-cristiani. E questo anche sul fondamento di una antropologia del limite per la quale «παν απονον δαιμόνιον; senza sforzo avviene ogni atto divino» e Zeus «ἰάπτει δ ̓ ἐλπίδων / ἀφ ̓ ὑψιπύργων πανώλεις; getta giù dall’alta torre / delle loro speranze i miseri mortali» (vv. 100 e 96-97, p. 212).

Ospitale verso le loro preghiere è a volte Zeus, inospitale altre volte. C’è invece un dio, fratello di Zeus, che tra le divinità è il più ospitale di tutti, «τὸν γάιον, τὸν πολυξενώτατον; Ade, dio della terra e signore della morte; Ζῆνα τῶν κεκμηκότων» (vv. 156-157, p. 214).

Altre divinità presenti, temute e onorate in questa tragedia – insieme a Zeus «δι ̓ αἰῶνος κρέων ἀπαύστου; signore del tempo infinito» (v. 574, p. 248) – sono Ares e Afrodite. Ares, da tutti temuto, dio senza danze e senza musica, padre del pianto, «ἄχορον ἀκίθαριν δακρυογόνον Ἄρη» (v. 681, p. 254). Afrodite il cui nome appare alla fine ad ammonire le ragazze dei rischi che corrono coloro che ne trascurano il culto, coloro che si chiudono alla potenza erotica della vita, al desiderio: «Kύπριδος δ ̓ οὐκ ἀμελεῖ θεσμὸς ὅδ ̓ εὔφρων / δύναται γὰρ Διὸς ἄγχιστα σὺν Ἥρᾳ; Ma neppure Cipride devi trascurare, in questo canto propiziatorio: / è potente, è la più vicina a Zeus, insieme a Era» (vv.1034-1035, p. 280). Tutti gli dèi, in ogni caso, vanno tenuti in conto, onorati dentro la persona umana che di loro è fatta, intrisa, mescolata.

È questo uno dei significati e degli scopi universali della tragedia greca, dell’intero mondo ellenico: che equilibrio, misura, distanza e rispetto siano dovuti in primo luogo agli dèi. Uno dei princìpi apollinei che risuonano a Delfi stabilisce: «τὰ θεῶν μηδὲν ἀγάζειν; Verso gli dèi, mai nessun eccesso» (v. 1061, p. 282). Ἱκέτιδες non è una tragedia di argomento sociale o morale, è una teologia, come sempre per i Greci.

Mortali

«Πυρὸς βροτοῖς δοτῆρ ̓ ὁρᾷς Προμηθέα; Hai davanti a te colui che ha donato il fuoco ai mortali: sono Prometeo!» (v. 612, p. 340).

Il fuoco, l’energia, la mente, la tecnica. E soprattutto il futuro che si dischiude dall’ignorare la data della propria morte. Questo ha donato Προμηθεὺς δεσμώτης (Prometeo incatenato). Ma a chi ha dedicato questi splendidi doni? Agli ἐφήμεροι, alle creature di un giorno, ai mortali (vv. 83, p. 304; 253, p. 316; 547, p. 336; 945, p. 364).

Perché questo Titano più duro della durezza e più libero della libertà ama così tanto gli umani che vivono un giorno? Forse la ragione sta anche nel fatto che essi possono morire, essi debbono morire, essi muoiono, mentre a lui questo dono è precluso: «ὅτῳ θανεῖν μέν ἐστιν οὐ πεπρωμένον: αὕτη γὰρ ἦν ἂν πημάτων ἀπαλλαγή; perché a me dal destino non è dato di morire: perché, è vero, la morte è la fine di tutte le pene» (753-754; p. 350).

C’è qualcosa di definitivo, qualcosa di totale in tutto questo, in tale «φιλανθρώπου τρόπου; smania di far del bene agli umani» (11, p. 298; 28, p. 300). Come una suprema ironia che sembra filantropia e che invece stabilisce che il valore degli umani sta nel loro sparire, il loro senso sta nel morire, nel dover morire, nel non esserci stati per un tempo infinito e nel non esserci più per un tempo altrettanto infinito.

Il φρενός di Prometeo, la sua mente, «ὡς δέρκεται πλέον τι τοῦ πεφασμένου; vede lontano, ben oltre ciò che appare» (842-843; p. 356). Vede che il limite è universale, che anche gli dèi si illudono «δὴ ναίειν ἀπενθῆ πέργαμ ̓; di abitare in una fortezza inaccessibile al dolore» (955-956; p. 364). E invece anch’essi sono segnati dal limite, sono creature della Necessità, dell’Orrore e dell’Inevitabile.

Prima di loro la Terra e il Cielo, prima di loro il Tempo. E prima di loro «Μοῖραι τρίμορφοι μνήμονές τ ̓ Ἐρινύες; le Moire dai tre volti e le Erinni, demoni della Memoria» (516; p. 334) e le «Φορκίδες ναίουσι δηναιαὶ κόραι / τρεῖς κυκνόμορφοι, κοινὸν ὄμμ ̓ἐκτημέναι, / μονόδοντες, ἃς οὔθ ̓ ἥλιος προσδέρκεται / ἀκτῖσιν οὔθ ̓ ἡ νύκτερος μήνη ποτέ; Forcidi, le tre vecchissime fanciulle dall’aspetto di cigno, che hanno un occhio solo fra tutte e un dente per una; mai si espongono ai raggi del sole, mai alla luce della luna notturna» (794-797; p. 354).

Queste sono le potenze che contano, le vere potenze: la Materia, il Tempo, la Morte. Per questo, e Prometeo lo ripete sarcastico più volte, Zeus non è affatto onnipotente e anch’egli è destinato alla caduta. In questo limite universale delle cose, in questo universale Sein zum Tode, gli umani si distinguono per la tracotanza unita all’imperfezione, per la presunzione unita alla viltà, per l’autoinganno di tutti e di ciascuno.

Davvero quella umana è «ᾇ τὸ φωτῶν / ἀλαὸν γένος ἐμπεποδισμένον; οὔποτε; una razza cieca che vaga incapace di vedere la luce: mai» (549-550; p. 336). Una specie senza luce, Homo sapiens, alla quale neppure l’andare del tempo, che pure «tutto insegna» (981; p. 368) è capace di insegnare l’essenziale, la saggezza che il morire dovrebbe dare alla misura dei giorni. L’accettare, soprattutto, tale condizione, senza angoscianti igienismi securitari, godendosi l’esistere per quello che si può, invece di rinchiudersi nel terrore a ogni piè sospinto di ammalarsi.

Persino quella di Prometeo, di un Titano, del figlio di Θέμις è una «τέχνη δ ̓ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷι; un’arte di gran lunga meno potente della necessità» (514; p. 510). E invece gli umani, questi vermi verticali malvagi e stupidotti, si credono superiori ad Ἀνάγκη sino ad affermare seriamente – è un’altra bizzarria del nostro tempo, quella dei movimenti estropiani e transumanisti – di poter non morire più, di poter vivere per sempre.

Ha ragione Zeus contro Prometeo, il filantropo. Zeus che nutre «una totale indifferenza verso la sorte dei mortali, considerati una stirpe difettosa» (Centanni in Eschilo 2013: 920).

Distruzione e fondazione

Il ciclo che ha preso nella tradizione il nome di Ὀρέστεια (Orestea), e che ha contribuito a fondare la nostra civiltà, comincia con Ἀγαμέμνων (Agamennone). Già in questa prima parte la colpa canta, sussurra, grida, latra, decide in una vicenda che è il trionfo di Erinni. Una «πρώταρχον ἄτην; colpa originaria» (v. 1192, p. 474) generata molto tempo prima, quando Atreo imbandì al fratello Tieste la carne dei suoi figli, per vendicarsi dell’adulterio di costui con la propria moglie. La maledizione di Tieste all’accorgersi del fiero pasto scende adesso sull’intera stirpe, sull’intera «casa imbrattata di sangue; αἵματι δ ̓ οἶκος ἐφύρθη» (v. 732; p. 442).

Il figlio di Atreo, Agamennone, ha dovuto sacrificare sull’altare ad Artemide la propria figlia Ifigenia. Un evento che lungo i dieci anni di guerra sotto Ilio ha trasformato Clitemnestra in una macchina di vendetta. Quando il marito torna ad Argo, lei lo accoglie come un sovrano assoluto, un re dell’Oriente, facendolo entrare nella reggia su tappeti di porpora e preparandogli il bagno. Ma nella vasca lo colpisce tre volte. Non è lei sola che lo uccide – proclama – ma è Ἄτη, la signora degli umani, colei che porta distruzione, follia, azioni irreparabili ed estreme. Clitemnestra è diventata Ate, è diventata l’Erinni, e lo sa.

Al di sopra degli antichi Titani, al di là dello stesso Zeus e dei suoi fratelli che dominano il mare e la terra, i veri signori del mondo, come abbiamo già visto, hanno nome Ἐρινύες, Mῆνις, Ἄτη, Μοῖραι, Ἀνάγκη. Essi sono le forze che involvono distruzione a distruzione; che trasformano le vite, gli imperi, le passioni umane; che gorgogliano dalla materia e non lasciano scampo al suo stare, al permanere, alla fissità dell’istante, del potere, della gioia e del dolore. Il vero signore del cosmo è Χρόνος, il divenire infinito, che assume le sembianze narrative e mitologiche di Κρόνος, figlio del Cielo e della Terra, padre di Zeus.

C’è qui una sapienza antropologica stupefacente e sicura. C’è la lucida e dolorosa consapevolezza che tutti gli enti sono frammenti del tempo e del suo destino, sono espressione della necessità e delle sue forme, sono il frutto effimero e cangiante dell’intero.

«πάθει μάθος; con il dolore si impara» (v. 177; p. 406). Che cosa si impara con il dolore? Si apprende quello che l’ambiguo Apollo, il Λοξίας, fa anche in questa tragedia: «παιᾶνα τόνδ ̓ Ἐρινύων; un peana alle Erinni» (v. 645; p. 438), in questo caso elevato per bocca di Ares, un altro dio della distruzione infinita.

In Apollo, davvero, «una pericolosa combinazione di salvezza-distruzione connette il canto salvifico con gli dèi della morte» (Centanni in Eschilo 2013: 989). Quegli dèi che vincono sempre poiché ««noi non possiamo fare a meno di cercare una conciliazione tra l’intelligibilità e il tempo, pur sapendo che prima che si riesca a darne ragione, sarà esso, per gioco, ad avere ragione di noi» (Pomian 1981: 94).

Anche per questo «τὰ δ ̓ αὖτε κἀπίμομφα τίς δὲ πλὴν θεῶν / ἅπαντ ̓ ἀπήμων τὸν δι ̓ αἰῶνος χρόνον; chi, a parte gli dèi, è immune dal dolore per tutto il tempo della sua vita?» (vv. 553-554; p. 433).

L’animale umano cerca, inventa, vive le soluzioni più diverse al frutto di Ἀνάγκη, al dolore d’esserci e alle sue molteplici manifestazioni: l’abbandono, la nostalgia, l’esilio, la violenza, l’inganno. Il Coro di Agamennone accenna a una delle soluzioni più intime e più profonde: «πάλαι τὸ σιγᾶν φάρμακον βλάβης ἔχω; da tempo ho trovato nel silenzio un rimedio al dolore» (v. 548; p. 430).

Le passioni sono ragione di esaltazione e di pianto. La passione fondamentale è ἔρως, è per gli uomini la donna. Elena percorre in modo sottile ma costante questa tragedia. Elena che tradì il fratello di Agamennone; per riportare la quale in Grecia anche Ifigenia dovette morire e dopo di lei tanti e tanti guerrieri; Elena che nella casa di Menelao e poi in quella di Paride appariva come «ἀκασκαῖον δ ̓ ἄγαλμα πλούτου; una splendida statua divina, muta e preziosa» (v. 741; p. 442); Elena che è «pura epifania della bellezza e della potenza della seduzione, perfettamente amorale e irresponsabile delle sue azioni» (Centanni in Eschilo 2013: 995).

A Elena si contrappone sua sorella, Clitemnestra dal cuore che non trema, che appare forte e decisa come un maschio, che colpisce per tre volte con gioia Agamennone spingendolo all’Ade, che è diventata alla fine Re, proprio Re non Regina. Accanto a lei Egisto sembra «κόμπασον θαρσῶν, ἀλέκτωρ ὥστε θηλείας πέλας; vanitoso, tronfio come un galletto vicino alla sua femmina» (v. 1671; p. 510), disprezzato dal Coro dei vecchi argivi, per i quali si prospetta la tirannide di costui, di un vigliacco. Ma per i Greci «πεπαιτέρα γὰρ μοῖρα τῆς τυραννίδος; la morte è un destino più dolce della tirannide» (v. 1365; p. 488).

Insieme e al di là di Elena e di Clitemnestra, una terza donna appare come potenza di pensiero, di delirio, di lucidità e di pianto: Cassandra. Questa ragazza è Apollo, è la sua parola, è la sua ironia, è la sua ferocia. Uccisa accanto ad Agamennone, la sua morte diventa richiamo della morte che afferrerà la sua assassina.

In attesa che Δίκη ritorni a sancire altre colpe, è Cassandra a descrivere nel suo intimo e nella sua evidenza la vita dei mortali, il loro essere ombre, segni vani, nulla:

ἰὼ βρότεια πράγματ ̓: εὐτυχοῦντα μὲν σκιά τις ἂν τρέψειεν: εἰ δὲ δυστυχῇ, βολαῖς ὑγρώσσων σπόγγος ὤλεσεν γραφήν. καὶ ταῦτ ̓ ἐκείνων μᾶλλον οἰκτίρω πολύ.

Ah, le vicende dei mortali! Se c’è buona fortuna basta un’ombra a farla svanire! E se la fortuna è cattiva, un colpo di spugna e si cancella il disegno! E tra le due, questa è la sorte che compiango di più» (vv. 1327-1330; p. 484).

La seconda parte del ciclo è dedicata alla sostanza invincibile della giustizia / vendetta. Tale è la dinamica di Χοηφόροι (Coefo-re): «Oὐκ ἀτρίακτος ἄτα; invincibile è Ate!» (v. 338; p. 538). È lei la signora dell’intera trilogia e lo è in particolare di questa sua parte. Giustizia/vendetta che hanno a che fare con il cosmo, con la Terra, con l’intero e non soltanto con le effimere vicende dei mortali. Si tratta di un principio universale, che già il frammento di Anassimandro aveva espresso con grande potenza. Il coro delle coefore, delle donne che portano libagioni sulla tomba di Agamennone, afferma che «δι ̓ αἵματ ̓ ἐκποθένθ ̓ ὑπὸ χθονὸς τροφοῦ / τίτας φόνος πέπηγεν οὐ διαρρύδαν; il sangue bevuto dalla Terra nutrice / è vendetta, è delitto, è un grumo che non si scioglie» (vv. 66-67; p. 518). Giustizia è «τὸν ἐχθρὸν ἀνταμείβεσθαι κακοῖς; ricambiare il malvagio con il suo stesso male» (v. 123; p. 522), modalità d’esistenza nella quale il fondatore mitico del cristianesimo identifica correttamente «i pagani» (Mt, 5, 43-48).

La giustizia / vendetta è per i Greci un potente sentimento – «θυμὸς ἔγκοτον στύγος; è l’impeto del cuore – è il rancore implacabile» (v. 393; p. 542) – ed è anche un principio sacro, che gli Dèi vogliono, pensano, impongono ai mortali. «Ἄρης Ἄρει ξυμβαλεῖ, Δίκᾳ Δίκα; Ares contro Ares, Dike contro Dike» (v. 461; p. 546); conflitto e giustizia unite in cinque parole, in un verso tra i più splendidi e sintomatici della Grecità.

A imporre a Oreste la vendetta è il dio dell’equilibrio e della luce, è Apollo, Apollo Λοξίου, l’obliquo, il molteplice, l’ironico. Se non ubbidisse al dio, Oreste subirebbe la persecuzione delle Erinni. E tuttavia, compiuto il riscatto della morte del padre Agamennone con la morte per sua mano della madre Clitemnestra, Oreste viene immediatamente perseguitato dalle Erinni. Non si dà ragione alcuna, infatti, per uccidere la madre, qualunque azione abbia ella compiuto. È dalla sua carne che gli umani, come qualunque mammifero, vengono lentamente plasmati nei mesi in cui con la madre sono una cosa sola. Uccidere la propria madre è, davvero, uno dei massimi atti contro natura che sia possibile pensare.

La sorella Elettra, il coro delle schiave troiane, l’amico Pilade, la nutrice, ricordano in modi diversi a Oreste il suo dovere di vendicare il padre tradito e assassinato. E Oreste ubbidisce. Dopo aver ubbidito ad Apollo dichiara perché lo ha fatto: «κτανεῖν τέ φημι μητέρ ̓ οὐκ ἄνευ δίκης; ho ucciso mia madre per giustizia» (v. 1027; p. 588). E tuttavia la conseguenza sono le Erinni davanti al suo cuore, le Erinni che lo fanno impazzire, le Erinni che non hanno pietà e che soltanto il tocco del Lossia, forse, potrà scacciare dal corpomente del matricida.

Davvero nel mondo degli umani «τὸν ζῶντα καίνειν τοὺς τεθνηκότας; i morti uccidono i vivi» (v. 886; p. 576), corpo si sostituisce a corpo, vita si sostituisce a vita; la morte è il signore di tutti. Suo tramite è il principio femminile che prende e dà, che costruisce dentro di sé la vita e schianta con la propria forza le vite che ha generato. Monica Centanni vede acutamente e giustamente all’opera in tutto questo uno «sguardo etologico» (Centanni in Eschilo 2013: 1061), lo sguardo che Sofocle esercita nel celebre inno dell’Antigone che celebra l’umano come forza meravigliosa e tremenda, concezione che in realtà è di Eschilo, per quanto splendidamente ripresa dal suo successore. Infatti:

πολλὰ μὲν γᾶ τρέφει δεινὰ καὶ δειμάτων ἄχη, πόντιαί τ ̓ ἀγκάλαι κνωδάλων ἀνταίων βρύουσι: πλάθουσι βλαστοῦσι καὶ πεδαίχμιοι λαμπάδες πεδάοροι, πτανά τε καὶ πεδοβά- μονα κἀνεμοέντ ̓ ἂν αἰγίδων φράσαι κότον.

ἀλλ ̓ ὑπέρτολμον ἀν- δρὸς φρόνημα τίς λέγοι καὶ γυναικῶν φρεσὶν τλαμόνων καὶ παντόλμους ἔρωτας ἄταισι συννόμους βροτῶν;

Molti la terra nutre Terribili […] funesti orrori E i recessi del mare brulicano […] di bestie mostruose, maligne. E dall’alto cala ancora rovina: I fulmini dal cielo distruggono Gli esseri dell’aria e della terra. E potrei dire dei venti, il vortice tempestoso del loro furore.

Ma la violenza che c’è nella mente dell’uomo Chi potrà dirla a parole? E la brama del cuore delle donne Temerarie […] l’audace Passione che porta tutti a rovina?(vv. 585-598; p. 556)

Una condizione ambigua, dinamica, cangiante, che diventa in Oreste cambio repentino di identità: da figlio vendicatore supplicato dalla madre a figlio perseguitato dalle Erinni della madre, da queste cagne immonde e potenti. In pochi versi, in un istante, «Oreste non è già più il vendicatore vittorioso del padre: è un figlio con le mani sporche di sangue della madre, perseguitato dai demoni» (Centanni in Eschilo 2013: 1088-1089).

I demoni che intessono e guidano le nostre passioni, non quelle di Oreste, le nostre: ogni giorno, per tutta la vita. Nessuno, davvero, «fra i mortali può passare / tutta senza affanno la vita, senza pagare il prezzo; οὔτις μερόπων ἀσινὴς βίοτον / διὰ παντὸς ἀπήμον ̓ ἀμείψει» (vv. 1018-1019; p. 588). Una vita priva di dolore e di inquietudine, sarebbe qualcosa di «più prezioso dell’oro / più grand[e] della grande fortuna degli Iperborei!; κρείσσονα χρυσοῦ, μεγάλης δὲ τύχης καὶ ὑπερβορέου» (vv. 373-374; p. 540). Gli Iperborei, popolo presso il quale Apollo trascorreva gli inverni. Anche Eschilo è Λοξίου, obliquo come il dio.

«Eὔφρονες; Benevole» (v. 992; p. 668) e non Εὐμενίδες «Eumenidi» come poi gli alessandrini intitolarono il testo fondamentale e fondante la civiltà mediterranea. Eὔφρονες, benevole, diventano le tremende e antichissime («παλαιὰς») potenze (v. 727; p. 650); potenze «νυκτὸς παῖδες ἄπαιδες; figlie senza figli, figlie della Notte», le Erinni (v. 1034; p. 670). A compiere la me-tamorfosi è Atena, la mente, sostenuta e aiutata da Πειθώ, dalla persuasione, dal linguaggio, dalla parola.

Erinni e Atena governeranno insieme e per sempre la città umana. Insieme significa che dentro e dietro ogni splendore della razionalità riposa, gorgoglia e vince la corporeità; dentro e dietro ogni etica sta la vendetta di chi quell’etica è riuscito a im-porre a coloro che ha sconfitto; dietro e dentro la Luce di Apollo sta la Notte, Νὺξ μέλαινα, la nera notte della maledizione, della memoria inestinguibile del male ricevuto, del morire che non conosce domani. Dietro ogni esistenza, dietro ogni Dasein, sta la nera notte del nulla, sta il Sein zum Tode.

«ἀνδρὸς δ ̓ ἐπειδὰν αἷμ ̓ ἀνασπάσῃ κόνις ἅπαξ θανόντος, οὔτις ἔστ ̓ ἀνάστασις. τούτων ἐπῳδὰς οὐκ ἐποίησεν πατὴρ οὑμός.

Quando invece la polvere della terra è intrisa del sangue di un uomo, una volta che sia morto non c’è ritorno, non tornerà alla luce. Mio padre, Zeus, non fa incantesimi contro la morte» (vv. 647-650; p. 644), afferma Apollo al culmine del conflitto con Erinni. Apollo, il colpevole, colui che si intesta senza esitazione il matricidio compiuto da Oreste. Apollo che condivide Delfi con il fratello sorridente e tremendo, Dioniso.

«Βρόμιος ἔχει τὸν χῶρον, οὐδ ̓ ἀμνημονῶ, ἐξ οὗτε Βάκχαις ἐστρατήγησεν θεός, λαγὼ δίκην Πενθεῖ καταρράψας μόρον.

Bromio è signore del luogo – non lo dimentico: di là il dio mosse con il suo esercito di baccanti, per straziare Penteo, braccandolo a morte come una lepre» (vv. 24-26: pp. 598-600).

Se Eschilo sembra cantare e ratificare la Luce che supera l’orrore, la realtà è che la luce è destinata a convivere con l’Orrore. Questo racconta la trilogia di Agamennone, Coefore, Eumenidi. Racconta la vita quotidiana degli umani, il cui dolore è destina-to a finire soltanto quando essi stessi finiranno, quando noi tutti spariremo. E Γαῖα, la Terra, respirerà.

La Terra che ha generato la Notte, le Erinni «κόραι, γραῖαι παλαιαὶ παῖδες; le fanciulle decrepite, antiche bambine» (vv. 68-69; p. 602); «γραίας δαίμονας; dee antichissime» (v. 150; p. 608). La Terra che nel volgersi infinito della materia ha generato il Destino la Μοίρα.

Se «χρόνος καθαιρεῖ πάντα; il tempo passa e purifica ogni cosa» (v. 286: p. 618), tale purificazione – quella destinata certamente a prodursi – è semplicemente la fine dell’umano nella storia, nello spazio, nel mondo. Fine che Erinni prefigura due volte con gli stessi versi a breve distanza:

«ἐπὶ δὲ τῷ τεθυμένῳ τόδε μέλος, παρακοπά, παραφορὰ φρενοδαλής, ὕμνος ἐξ Ἐρινύων, δέσμιος φρενῶν, ἀφόρ- μικτος, αὐονὰ βροτοῖς.

E per la vittima sacrificale questo canto – delirio follia frenesia – inno di Erinni si innalza, canto che incatena la mente. Canto senza suono di cetra, che annienta la stirpe mortale»(vv. 328-333; 341-346; pp. 620-621).

Alla fine, come in Sette contro Tebe (vv. 855-860), il paese oscuro che tutti accoglie è il Nulla da cui siamo scaturiti, è la «tenebra priva di luce; δυσήλιον κνέφας» (v. 396; p. 624).E sarà, finalmente, la pace.

Alberto Giovanni Biuso

Bibliografia

Le opere di Eschilo sono citate da Tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133 (2003), «I Meridiani», pagine LXXXII-1245.

I versi di Eschilo vengono citati in greco, seguiti dalla traduzione italiana della curatrice. Per comodità del lettore indicherò sia il numero dei versi sia la pagina dell’edizione «Meridiani» nella quale trovarli.

Eraclito (2017), in Eraclito: la luce dell’oscuro, a cura di G. Fornari, Firenze: Olschki.Nietzsche, Friedrich (1872), La nascita della tragedia, trad. di S. Giametta, in «Opere», vol. III/1, Milano: Adelphi (1972). Pomian, Krzysztof (1981) «Tempo /Temporalità», in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Torino: Einaudi.

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