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Filosofia

Una metafisica antropodecentrica

La metafisica come antropodecentrismo
in Mechane. Rivista di filosofia e antropologia della tecnica
n. 3/2022
pagine 45-57

Indice
-Martin Heidegger e Eugenio Mazzarella
-Il campo metafisico
-Il campo anarchico-ermeneutico: Schürmann
-Metafisica e antropodecentrismo

Abstract
The essay tries to grasp starting from Heidegger and beyond Heidegger, from Mazzarella and beyond Mazzarella, the anthropodecentric structure that constitutes the real reason for the fecundity and necessity of metaphysics. Human meaning, its history and its future are inseparable from the atomic, molecular, thermodynamic story of the cosmos. Metaphysics, πρώτη φιλοσοφία, is also this attempt to observe and understand the world from the point of view of matter, of the whole, of the Φύσις

La metafisica come antropodecentrismo

Il discorso heideggeriano – perché discorso e non sistema è una filosofia sempre aperta, asintotica, in cammino – ha un “carattere di cenno, di comunicazione di un appello”, di una “povertà [che è] anche la sua ricchezza”1. A questo discorso Eugenio Mazzarella dedicò nel 1981 un libro che a quarant’anni di distanza mostra una freschezza, una perennità, una fecondità che appaiono evidenti e che hanno molte ragioni. Tra queste certamente l’acutezza ermeneutica e la profonda competenza che spazia all’interno di tutto il Denkweg heideggeriano ma anche altri due particolari elementi: il primo è la capacità di intessere il discorso di Heidegger con quello di Mazzarella stesso, sino a dare l’impressione che il libro sia scritto a quattro mani, dove la presenza pervasiva delle parole di Heidegger non è mai arbitraria ma è sempre ben intramata nel tessuto di un’articolata argomentazione composta di molti strati; il secondo è l’ispirazione nietzscheana di tale lettura, già a partire dal suo incipit su “umanismo, antiumanismo, ultraumanismo” che apre al “radicale ‘ultraumanismo’ della Seinsfrage heideggeriana, per il quale ogni domanda circa l’essere è insieme domanda, e parte da esso, sull’esserci umano nel più vasto contesto del ‘mondo’” (17 e 9).

Al centro dunque la questione dell’essere, che si articola sempre – questa una delle tesi di fondo di Mazzarella – come questione dell’esserci. Senza che però una debba prevalere prima o poi e in qualche modo sull’altra. Piuttosto la salvaguardia dell’una è condizione per la salvezza dell’altra, tanto che l’essenza umana è individuata nella costante apertura all’essere, che significa anche e immediatamente riconoscimento ‘greco’ dei limiti dell’umano, della finitudine, dell’inoltrepassabile che è il morire come destino e sostanza di tutto ciò che è vivo. La relazione umana all’essere non è dunque – non può proprio essere – una sua fondazione ma è soltanto la sua custodia. Al di là della tracotanza del moderno, di ogni possibile idealismo che ha inteso imporre la soggettività umana – il cogito me cogitare – all’intero, la filosofia quale prospettiva perenne sul mondo si origina appunto dal mondo come unità dinamica tra l’essere umano e l’essere in quanto tale. La cosiddetta Kehre non è pertanto una svolta dalla centralità del Dasein a quella del Sein, lettura non soltanto banalizzante ma proprio filologicamente scorretta, bensì un procedere per tornanti, esattamente come si fa in un cammino che si volge verso l’alto.

È anche per questa fedeltà a se stesso di un Denkweg che si fa Kehre, di un cammino del pensiero che si sostanzia di trasformazioni che nulla negano e invece sempre più confermano l’inizio, che Heidegger può dire (e anche inventare) parole che non negano affatto la metafisica ma elaborano una metafisica dell’intero non umano, che non negano affatto la filosofia ma sviluppano una filosofia antropodecentrica e quindi davvero μετά, davvero oltre la pretesa che la sineddoche umana ha di rappresentare l’intero.

In questo senso l’Appendice del libro di Mazzarella, dedicata a Gregory Bateson, non è affatto un’appendice e dice molto invece del significato che la metafisica può rivestire per il nostro tempo, ancor più che per quello di Heidegger. L’affermazione di Bateson secondo cui “la creatura che la spunta contro il suo ambiente distrugge sé stessa” (314) è infatti in continuità con molti degli esistenziali di Essere e tempo, i quali diventano poi le parole più celebri e più controverse di questo filosofo: “Ma come figurativamente si configura questo sfondamento/decentramento del soggetto nell’esser-ci? La risposta suona semplice nella semplicità dei ‘quattro’ del Geviert: il Bezug, il rapporto uomo-essere, è nel suo stesso istituirsi Geviert, il quadrato di divini e mortali, terra e cielo riposante nell’Ereignis, nell’evento appropriante” (47).

Evento che è anche un gioco tra l’essere e il nulla, del quale “non si può dire cosa è, ma solo che è e come è: che esso accade, e accade così. Nel linguaggio ‘adulto’ della Seinsfrage: Ereignis e Geschick – che si dà un configurarsi di presenza, un ‘invio’ d’essere come esser-ci” (190).

È qui che affonda la questione della tecnica, al di là di eventi storici, prospettive epistemologiche, inquietudini politiche. Affonda nei limiti umani e nel loro impossibile e quindi autodistruttivo superamento. “È l’esigenza non di un ripudio o rigetto dell’atteggiamento tecnico, ma di una sua ‘delimitazione’ che si fa valere” poiché “ciò che è in questione è appunto una ridefinizione della tecnicità umana come sua riposizione nei propri limiti” (280 e 13). La Lichtung, altro termine chiave di Heidegger, è anche una luce rivolta al plesso storico-metafisico che è, a questa altezza, la questione della tecnica. Ben lontana da ogni presunta ‘confutazione’ della metafisica, la filosofia heideggeriana procede a una sua ‘distruzione’ che “è propriamente insieme la riposizione della metafisica nella sua verità, ciò che Heidegger definisce l’oltrepassamento (Überwindung) della metafisica come traduzione (Überlieferung) della metafisica nella sua verità, in altri termini come riporto dell’ente alla verità-apertura dell’essere” (17).

Questa vera e propria dichiarazione programmatica si trova in apertura di Tecnica e metafisica e da essa si originano i suoi più fecondi risultati. Dai quali Mazzarella ha poi sviluppato, nei quarant’anni che dal libro ci separano, alcune delle analisi più feconde per la comprensione teoretica e dunque effettuale del presente. Come ad esempio la “fallacia artificialista” che consiste nel dedurre “da ciò che si può fare quel che si deve fare” e che “in nome delle possibilità dell’artificio, sembra sempre più vivere dell’opposizione di principio di natura e cultura». Fallacia ben descritta in Tecnica e Metafisica nelle pagine dedicate alla necessità di disincantarsi “da quel disincantamento tecnico del mondo” che pretende di porre al centro dell’agire umano la fede in un volere/potere che conduce all’impotenza dell’autodissoluzione (233-234). La prospettiva mazzarelliana è una οἶκολόγία che è il vero cuore della Seinsfrage e che percorre l’intero cammino sia di Heidegger sia di Mazzarella.

A salvare l’οἶκος e a garantire dentro di esso l’umano è necessaria la rimemorazione di una finitudine biologica che è figura della colpa ontologica insita nell’esserci, come la filosofia sa da Anassimandro a Heidegger. Quel nullo fondamento di una nullità che secondo Sein und Zeit è l’umano genera “l’esperienza dello Schuldigsein come essere indebito ed essere in colpa” (59) rispetto alla struttura di un intero che alcune culture, come ad esempio la nostra, si illudono di poter devastare sopravvivendo alla devastazione.

I grandi temi gnostici della colpa e della pena sono stati affrontati tematicamente da Mazzarella solo nelle opere più recenti ma, ancora una volta, sta qui la loro genesi: “Pena e colpa, come perire e nascere, non sono niente di morale o giuridico, ma traducono le due ‘assenze’ entro cui è inciso l’esser-presente via via soggiornante” (178), le assenze di ciò che è stato e non è più e di ciò che sarà ma non è ancora. Il tempo, tema teoretico e sostanza ontologica della filosofia, traspare in ogni pagina di Tecnica e metafisica perché è un libro scritto insieme da Mazzarella e da Heidegger. Il tempo che fonda un’etica teoretica “come tentativo di guardare in faccia il destino dell’uomo tecnologico”; un’etica volta a “recuperare la ‘grecità’ delle origini che ‘non conosceva né una ‘logica’, né un’‘etica’, né una ‘fisica’”, come si dice nella Lettera sull’umanismo, “ma il tutto del mondo e del proprio rapporto al mondo, che come λόγος è ἦθος e come tale οἶκος, dimora” (9 e 294–295).

Da un punto di vista strettamente storiografico, in Tecnica e Metafisica Mazzarella individua con chiarezza uno dei limiti della pur preziosa ricostruzione delle filosofie e del loro cammino che è possibile ritrovare nei libri, nei corsi, nei seminari di Heidegger. Una vera e propria riduzione delle filosofie dentro uno schema di decadenza che può costituire una legittima prospettiva ma non può diventare il percorso inevitabile nel quale filosofi e opere trovano ciascuno la propria collocazione. Bene fa dunque Mazzarella a sostenere “l’irriducibilità di posizioni di pensiero quali quelle preplatoniche e in parte aristoteliche, per non dire di Kant e di Nietzsche, a rimanere all’interno del quadro heideggeriano della metafisica come oblio dell’occultamento” (155). In questo la Seinsfrage mostra ancora la propria dipendenza dalla hegeliana storia della filosofia come filosofia della storia. Se in Hegel si celebra lo sviluppo dello spirito, in Heidegger si dà un percorso necessario della metafisica da Parmenide a Nietzsche, percorso che in quest’ultimo si compirebbe come Wille zur Macht. Il compimento della filosofia in quanto metafisica nella società della tecnica dispiegata segue lo stesso schema marxiano del compimento della storia nella società comunista. In realtà in tutte le vicende umane, comprese quelle teoretico-metafisiche, non si dà alcun ordine, provvidenza, decadenza o schema prefissato ma il susseguirsi di una immensa complessità, di forme, di interazioni, di strutture non messe in ordine da niente e da nessuno ma ciascuna legata alle altre per nessi interni, la cui necessità è pari alla casualità.

Come si vede, una simile densità di temi e prospettive sull’intero percorso heideggeriano e sulle molte e radicali questioni che in esso rimangono aperte rendono Tecnica e Metafisica qualcosa di più delicato e di più essenziale rispetto alla interpretazione di un’altra filosofia e dicono invece già molto del filosofo Mazzarella. La cui consapevolezza ontologica e insieme esistentiva “dell’infinito dolore che trascorre sulla terra e della scarna felicità” è talmente intima da chiudere il libro del 1981 con queste parole: “per quanto ne sappiamo, il più vero mestiere dell’uomo ha ancora da essere l’attivo dolore di esistere” (170 e 322) e da aprire un cammino di pensiero che tra Novecento e XXI secolo continua a offrirci elementi di sapienza, sia in ciò che di esso è possibile condividere sia di quanto può essere criticamente interpretato.

Certamente preziosa è l’indicazione, valida sia per Heidegger sia per Mazzarella, che “nessuna ratifica dell’esistente” è possibile “da parte di un pensiero che interroga l’esistenza fino al suo radicarsi nel nulla” (237), per un pensiero che si condensa e si esprime in pagine che sembrano ispirate da una qualche forma di Grazia teoretica.

Il campo metafisico

Qualcosa è. Questa semplice e fondante affermazione fenomenologica prende atto dell’indubitabile, del fatto che qualcosa è, perché in caso contrario non potrebbe darsi l’affermazione stessa che dice che qualcosa è e neppure l’affermazione opposta che nega che qualcosa sia. Il mondo è l’insieme di tutto ciò che è e che essendo accade. Ciò che l’osservazione del mondo indica ai livelli via via più comp- lessi della sensazione, della percezione e della riflessione è infatti non soltanto che qualcosa sia ma anche che il qualcosa che è non rimane mai a lungo ciò che è e di continuo si evolve in ciò che tende a essere. La possibilità di trasformarsi e mutare senza distruggersi è ciò che nel linguaggio aristotelico viene definito potenza, il risultato del trasformarsi e del mutare è chiamato atto. L’essere e il diventare sono inseparabili e si esplicano nella trasformazione sia della materia della quale ogni ente è composto sia della sua forma.

A mutare sono sempre enti determinati, oggetti individuali, eventi specifici, processi riconoscibili. Queste sono le sostanze prime, la cui trasformazione e le cui relazioni sono però comprensibili soltanto alla luce delle sostanze seconde, vale a dire dei generi ai quali ogni ente appartiene, delle specie (o sortali) di cui è parte, degli universali entro cui è compreso, della differenza di ogni ente da ciascun altro. Ogni ente, evento e processo è uno in quanto è identico a se stesso; ed è molteplice in quanto ogni ente, evento e processo si distingue in molti modi da altri enti, eventi e processi. Il reale è differenza rispetto all’astrazione della negazione assoluta. Il presupposto della realtà e della sua conoscibilità è la compresenza di essere e nulla nel divenire, non come struttura dialettica ma – assai diversamente – come realtà della differenza. Il niente non è la negazione ma è il diverso. Ogni determinazione è differenza, “omnis determinatio est positio et differentia2.

Come indicato con chiarezza da Aristotele in Metafisica, X 3, 1054b, uguale e diseguale, simile e diverso, sono manifestazioni della struttura fondamentale di ogni ente, evento e processo, che consiste nell’identità con se stesso e nella sua differenza da altro. Ne consegue che pensare l’identità e la differenza significa pensare il tempo nel quale enti, eventi e processi rimangono identici a ciò che sono e insieme mutano. Gli enti permangono trasformandosi incessantemente – e questo fa la loro identità – e mutano permanendo ciò che sono – e questo è la loro differenza. Essere, identità, differenza, stabilità, mutamento sono dunque tutte forme, espressioni, esperienze e strutture temporali perché sono manifestazione e sostanza del divenire.

Non si tratta della banale evidenza per la quale un tavolo è tavolo perché non è non-tavolo ma della assai più feconda comprensione della dinamica che ha trasformato l’albero in tronco e il tronco in tavolo. L’albero non può essere tronco se è albero né può essere tavolo se è tronco ma può essere albero, tronco e tavolo in tempi diversi. Così una nuvola non è nel medesimo istante pioggia ma può essere sia nuvola sia pioggia in tempi diversi. Il diventare degli enti è la loro dinamica, il divenire dell’insieme di enti, eventi e processi che diventano è la struttura che chiamiamo essere. L’essere è dunque divenire, l’essere è tempo.

La negazione del tempo implica la negazione dell’essere e della sua comprensione logica. Una negazione palesemente assurda in qualunque modo o ambito – fisico, chimico, teologico, psicologico – la si predichi poiché, afferma con divertito rigore Aristotele, “ὁ γὰρ λέγων ποτὲ αὐτὸς οὐκ ἦν καὶ πάλιν οὐκ ἔσται”, la stessa persona che sostiene una simile teoria – negante il divenire – una volta non esisteva ancora e un’altra volta non esisterà più (Metaphy. IV 8, 1012 b 25-26).

La metafisica è dunque una forma rigorosa di riflessione sul mondo inteso come totalità dei fenomeni che sono e che accadono. Una scienza quindi di tutti i fenomeni: fisici e logici, sensibili e sovrasensibili, empirici e mentali, particolari e universali. Per questo l’ambito fondamentale della metafisica, non l’unico, è l’ontologia, poiché il verbo ‘essere’ e il suo participio ‘ente’ costituiscono i due termini chiave che permettono “di abbracciare in unità l’intero contenuto dell’esperienza e di farne in tal modo un unico tema, il tema appunto della metafisica”. Un’ontologia per sua natura temporale in quanto gli enti sono identità e differenza con se stessi, e sono quindi un diventare, ed entrando in relazione con altri enti costituiscono gli eventi e i processi. Questa struttura relazionale non ha bisogno, per essere compresa e spiegata, di riferimenti a qualcosa d’altro da sé. Nel linguaggio delle antiche metafisiche si potrebbe dire che l’esseretempo è l’Assoluto immanente alla materia. In generale, enti, eventi e processi costituiscono una struttura che incessantemente diviene, una struttura composta quindi dell’essere ora, del non essere più e del non essere ancora. La metafisica non può prescindere da questa che è un’evidenza primaria. E quindi il non essere è nel preciso significato con il quale Platone mostra l’insufficienza dell’immobile monismo parmenideo. Il non essere è in quanto differenza tra ciò che gli enti sono in un dato istante e ciò che sono stati nell’istante precedente e saranno nell’istante successivo. Il non essere è in quanto differenza temporale, in quanto divenire assoluto che fonda ogni specifico diventare.

Tempo e corpomente costituiscono il campo – da intendere come lo intende la fisica, vale a dire un insieme unitario e molteplice di massa ed energia, di struttura e di funzione – nel quale si dispiega la dinamica di materia, intenzionalità, movimento, significati. L’Io non è affatto un pensiero, un’astratta e separata cosa che pensa – l’incomprensione cartesiana sulla natura dell’animale umano è radicale –, ma è un tessuto di bisogni, di attività, di fini, che si dispiegano nel mondo e accadono nel tempo in forma ogni volta rinnovata. Pensare l’umano come senso, centro e vertice significa concepire ancora una volta l’umano come un impero dentro l’impero, errore dal quale Spinoza ci ha messo in guardia ormai da tempo. Lebenswelt e τέλος, il mondo della vita e i suoi scopi, riguardano gli umani singolarmente presi, riguardano le collettività sociali, riguardano le scienze nella loro identità e nelle loro differenze. La metafisica, la πρώτη φιλοσοφία, è anche il tentativo di vedere il mondo dal punto di vista della materia della quale siamo parte.

Il divenire della materia genera la differenza come dissoluzione degli enti che permette ad altri enti di emergere, al di là della stasi senza fine in cui consisterebbe il dominio dell’identico (Anassimandro). Una differenza che consiste nel confine dei desideri, nel non essere onnipotenti, nel dover sottostare al limite stabilito da sempre, da sempre deciso non da una qualche volontà personale, non da entità individue ma dall’insieme stesso di tutti gli enti, delle loro relazioni, dell’attrito che reciprocamente li delimita e insieme consente loro di diventare, degli eventiora che si legano da sempre e per sempre agli eventiallora e agli eventipoi, il limite stabilito dalla potenza – in una parola– del tempo. Il tempo è Ἀνάγκη, Μοίρα, Ἄτη, tempo sono le Parche.

Una differenza che è la distanza che ogni vivente drammaticamente sperimenta dentro sé rispetto al desiderio tenace e infinito di pienezza. Anche questa distanza è il nulla. Il nulla è la differenza ontologica. E non soltanto per le ragioni ontiche indicate da Bovillo (Charles de Bouvelles, 1506), che vede nel nulla la condizione della nascita e della morte e quindi della possibilità e realtà stessa degli enti, o per le ragioni logiche individuate nel Sofista, per le quali il falso è il nulla della verità (la sua negazione) che rende possibile l’essere della verità ed è per questo che il falso e il nulla si possono dire e pensare, contro Parmenide e contro i Sofisti.

Il nulla è la struttura ontologica immensa, pervasiva e necessaria che rende possibile l’esistere di ogni ente, evento e processo come non essere di altri enti, eventi e processi. Il tempo è questo nulla. Gli enti non sono l’essere non perché siano stati voluti e creati da qualcuno ma perché la loro struttura è fatta di parzialità, finitudine e oscurità rispetto alla trasparenza, all’attrito, alla differenza che rende possibile gli enti senza coincidere con nessuno di loro, né come enti singoli né come universali logici e ontologici. Dedicata e vocata a queste altezze dell’indagine razionale, la metafisica è un sapere perenne, è una scienza razionale, totalistica e immanentistica. Quanti l’hanno dichiarata o continuano a dichiararla defunta “o sono male informati, cioè non aggiornati, oppure esprimono solo un wishful thinking, cioè più che un pensiero, un desiderio”. La metafisica è perenne nei limiti della presenza di parti della materia che sulla materia riflettono. Là dove queste strutture mentali non esistono, e cioè praticamente ovunque nell’universo conosciuto, la metafisica rimane non come pensiero della materia su se stessa ma come la struttura stessa dell’essere, vale a dire l’essere e il divenire delle galassie, il tempo cosmico.

Il campo anarchico-ermeneutico: Schürmann

Questo insieme di questioni, aporie e prospettive emerge in modo assai chiaro dalla lettura che Reiner Schürmann conduce del cammino heideggeriano, dei suoi concetti, dei suoi fondamenti e delle sue intenzioni. Quella di Schürmann è infatti un’analisi che non ripete le tesi di Heidegger, non le travisa, non le banalizza, non le difende. Le indica piuttosto nella loro distanza e a un tempo nella loro radicale fecondità. Per questo si tratta di uno dei libri più importanti e chiarificatori che siano stati dedicati al filosofo. I due limiti più consistenti sono la complessiva prolissità e la presenza di costruzioni concettuali a volte oscure. Evitando le ripetizioni e cercando di sciogliere il lessico in modo più limpido, il libro avrebbe molto guadagnato ma anche così com’è rappresenta un capolavoro ermeneutico che adotta una particolare metodologia: la necessità di “leggere Heidegger a ritroso”3.

Il ‘senso’ dell’essere cercato in Sein und Zeit non è il ‘significato’ ma è la ‘direzione’, che nel secondo momento della riflessione heideggeriana diventa una direzione storico-destinale, la quale affranca l’analitica esistenziale da ogni equivoco soggettivistico e umanistico. In questo itinerario la direzione destinale si fa disvelamento epocale, topologia temporale, evento. Come si vede, è il terzo momento che illumina, appunto a ritroso, i due precedenti. L’esito di questo metodo non consiste solo nello scandire in tre invece che in due momenti il Dekweg heideggeriano; interpretazioni del genere rimangono del tutto estrinseche e superficiali. Il vero risultato è ‘metafisico’, in un senso certo diverso da quello nel quale Schürmann utilizza questa parola, ed è profondamente politico come politica è ogni adeguata lettura di Platone. Il risultato è che

leggendo Heidegger a partire dalla fine verso l’inizio, dunque, saltano agli occhi le implicazioni pratiche del suo pensiero: il gioco di una mobilità nella pratica, privo di stabilizzazione e spinto presumibilmente fino al punto di creare un’incessante fluttuazione nelle istituzioni, è un fine in sé. La svolta al di fuori della metafisica rivela così l’essenza della praxis: scambio privato di un principio (§ 2, 49).

Questo è il metodo; i fondamenti generali della lettura che ne scaturisce sono il tempo, l’antiumanismo, l’anarchismo.

“Nel corso dei suoi scritti, Heidegger non fa che sollevare un’unica questione, quella del rapporto tra essere e tempo” (§ 47, p. 528), lo fa in un modo che disloca l’essere umano da ogni centralità e perviene alla decostruzione di ogni principio assoluto nella potenza appunto del tempo che impedisce a ogni fondamento di costituirsi come assoluto. Lontana da ogni ideologia politica, da ogni teologia della storia e da qualunque forma di storicismo positivista, la filosofia di Heidegger costituisce un pensiero dell’apertura, del futuro e della molteplicità.

Heidegger sostituisce progressivamente e inesorabilmente alla presenza il venire alla presenza, all’ousia la parousia, all’essere il divenire. I legami con Nietzsche appaiono quindi assai forti ma anche il legame con Husserl, con la centralità del tempo, con l’approccio fenomenologico come manifestarsi alla presenza, come pensiero che segue enti, eventi e processi nel loro emergere dal mondo e nel loro costituirsi in mondo, come itinerario nella gratuità di una presenza provvisoria, di una temporanea parentesi del nulla. Senza perché, senza ragione, senza fondamento, senza archē. L’essere come il manifestarsi anarchico del tempo.

La dislocazione antifinalistica e ateleocratica sottrae il terreno a ogni prospettiva di fondazione assoluta del mondo, basata su principî universali che pretendono di porsi fuori dal tempo. In questo preciso significato Schürmann parla dunque di dislocazione anarchica. I principî che di volta in volta hanno preteso di sottrarsi al divenire e fondarsi nel sempre, nella sostanza stessa del mondo, possono essere indicati in varie serie e in diversi modi: “il Bene platonico, il Dio cristiano, la Legge morale, l’autorità della Ragione, il Progresso, la Felicità del più grande numero” (§ 12, 175); la fisica (Aristotele), la religione (i medioevali), la logica (Leibniz). Un itinerario che procede dalla realtà autonoma degli enti alla coscienza umana che degli enti si ritiene fondatrice; un itinerario scandito nelle tappe della “sostanza sensibile, la sostanza divina, il soggetto umano” (§ 16, 219). In questo modo le leggi e le dinamiche del mondo si trasformano nelle dinamiche e nelle leggi della rappresentazione che l’umano si fa del mondo. Quella che appunto Heidegger definisce “das Zeitalter des Weltbildes”, l’epoca nella quale il mondo diventa rap- presentazione della coscienza umana.

Un aspetto e una conseguenza immediatamente storici di tali principî è costituita dalla violenza che in essi è sempre implicita, limitare la quale è uno dei veri portati politici del pensiero di Heidegger. Quando infatti “si pensa alle sofferenze che gli uomini si sono inflitti e si infliggono in nome dei principî epocali, diventa chiaro che la filosofia – ‘il pensiero’ – non è affatto un’impresa futile: una fenomenologia che deostruisce le epoche ‘cambia il mondo’ poiché rivela il deperimento di questi principî” (§ 1, 34).

A questi itinerari nella dimensione totalitaria della storia e nella luce totalistica di una verità che alla fine è solo parte dell’ombra umana, Heidegger oppone itinerari che non portano da nessuna parte, Holzwege, e oppone una luce che sgorga e si manifesta sempre dentro l’ombra del nulla, Lichtung. Sentieri interrotti e lampeggiamenti hanno in comune la dissoluzione della sostanza, la libertà dagli scopi, la natura interamente temporale, l’assenza.

Questo significa “dai principî all’anarchia”. È il passaggio dalla presenza al venire alla presenza, così come esso accade nel pensiero aurorale dei Greci, i riferimenti al quale non hanno dunque in Heidegger alcun significato e obiettivo classicista, nostalgico, romantico ma costituiscono un preciso dispositivo teoretico volto al presente, al futuro e all’azione nel presente e nel futuro. In Heidegger c’è molto più che una radicale unità tra l’essere e l’agire, c’è lo scaturire di entrambi dal gioco di presenza e di assenza, che diventa infatti il continuo venire alla presenza di qualcosa che non è ma che diviene, che è proprio perché agisce, e che nella sua struttura è agire che apre la comprensione e comprensione della vita agita, un gioco che è vita pensata.

Dispositivo, concetto, enigma centrale è in tutto questo l’assenza. Il campo della presenza ontica si costituisce infatti come “assenza di ciò che è scomparso e assenza di ciò che arriverà” (§ 19, 278). Nel tra, nel mezzo, nell’intervallo, nel tempo tra l’assenza che era e l’assenza che sarà accade la presenza, scaturisce il presente. Accade e non è, proprio perché non si dà alcun fondamento dell’essere che non sia tale dinamica tra assenza e presenza, tra ora, già e non ancora, tra ente e niente, tra essere e nulla.

Il fenomeno che accade tra l’essere e il nulla è chiamato tempo, è la differenza ontologica come differenza temporale tra la presenza e il venire alla presenza. La differenza ontologico/temporale è dunque differenza tra il dato che è il presente e il dare che è il venire alla presenza, che comprende in sé ciò che presente è stato e non è più e presente sarà senza essere ancora, “gewesend-gegenwärtigende Zukunft”, avvenire-essente stato-presentante.

La Kehre sarebbe questo, la svolta come

tentativo di togliere un centro al reticolo dei fenomeni, cercando la sua condizione non entro fondamenti ultimi, bensì nel semplice evento del venire alla presenza e nelle sue modalità storiche. Dei due tipi di pensiero così discriminati da questa frattura – l’uno che fonda la presenza costante, l’altro che considera il venire alla presenza come un evento – il primo è operativo all’interno della chiusura metafisica, il secondo al di fuori di essa (§ 6, 86).

Emerge in quest’ultima affermazione un altro degli elementi centrali della lettura di Schürmann, la caratterizzazione radicalmente antimetafisica del pensare heideggeriano. Caratterizzazione coerente e comprensibile se si pensa la metafisica come luogo o, nel linguaggio di Schürmann, come “economia” della fondazione e della presenza. Ma la metafisica si dice in molti modi, in generale e anche in Heidegger. Solo se limitata all’equazione della metafisica con l’istanza fondativa, la filosofia di Heidegger è antimetafisica, proprio in quanto antitotalitaria e coerentemente anarchica. Sta qui la svolta, che come si vede è ontologica ed è politica ma in una direzione assai diversa rispetto alle sterili, vuote e svuotate polemiche giornalistico – accademiche sulla collocazione politica di Heidegger. La tecnologia, l’abbandono, il morire, l’evento sono tutti inscritti entro l’orizzonte ontologico dell’assenza ed entro l’orizzonte esistenziale dell’antiumanismo.

La tecnologia è ambivalente perché può essere il compimento dell’antropocentrismo ma può anche costituire, e di fatto costituisce sempre più, la destituzione dell’umano dalla signoria sulle cose, sostituita dal dominio delle macchine. L’agente cartesiano della rappresentazione va diventando l’oggetto rappresentato dal risultato delle sue stesse rappresentazioni che si sono rese autonome dal soggetto umano.

Rispetto a questo sogno di dominio trasformato in dominazione, la Gelassenheit rappresenta l’abbandono come lasciar essere, la sovversione contro ogni autorità che si pretende fondata in se stessa, la sovversione contro ogni volontà di potenza, la sovversione contro la tracotanza, contro la ὕβρις.

Del lasciar essere è parte l’assenza definitiva dopo l’essere stati, il morire; ed è anche per questo che al di là dei comprensibili e umani pianti rivolti alla sua pervasività, il morire rappresenta la garanzia suprema dell’essere come tempo tra la profondità del nulla che l’ente è stato e la profondità del nulla che l’ente sarà. Non Mensch ma Dasein anche per indicare questa natura sempre al limite, finita, non sostanzialista ma diveniente, di ciò che siamo, questa finitudine consapevole del morire che chiamiamo umanità. Siamo βροτοί, siamo mortali, perché la nostra presenza non è che un modo dell’assenza, il nostro stare è un modo del diventare, il nostro essere è una forma del niente.

Antiumanista come antiumaniste sono le filosofie di Marx e di Nietzsche, il pensiero di Heidegger è disvelatore dei limiti intrinseci a ogni prospettiva e progetto umanistici mediante un venire alla presenza polimorfo. L’umano è sempre la situazione che lo precede, nella quale è comparso e in cui rimane gettato per l’intera sostanza dei suoi giorni; l’umano è dunque sempre una ben precisa possibilità storica che compare, accade e agisce dentro i bastioni del tempo storico che gli è stato destinato dall’eventuarsi della realtà. Il venire in questo modo alla presenza non è niente di umano, soggettivo e coscienzialistico, non ha a che fare con qualche volontà e proponimento, non è nulla di umanistico e nemmeno di antropologico.

Il punto chiave è che a essere finita non è soltanto l’umana esistenza, il Dasein, ma è “l’essere stesso in quanto tempo” (§ 47, 532), l’essere come divenire alla presenza per poi tornare nell’assenza. L’essere in quanto nulla.

Metafisica e antropodecentrismo

Anche contro la lettura così peculiare e così ricca proposta da Schürmann, la radicalità heideggeriana – vale a dire il suo pensare da ontologo e non da teorico della conoscenza, da sociologo o da epistemologo – fa di lui “un alleato e non un nemico”4 della metafisica. Metafisica vuol dire infatti discoprimento dell’essere in quanto tale, al di là dei modi parziali e degli enti specifici nei quali e attraverso i quali l’essere si svela. L’ontologia è anche una scienza del nulla, inteso come differenza rispetto all’essere delle cose e trascendenza rispetto al loro stare. L’essere non si esaurisce negli enti ma li trascende sempre, è il trascendente in quanto tale. Alla metafisica Heidegger intende fornire una solida base, costruita naturalmente sul fondamento aristotelico e in generale greco ma capace di oltrepassarne i limiti sia storici sia metodologici rispetto alle prospettive e alla complessità del presente, vale a dire di un pensare che deve sempre confrontarsi con la metamorfosi cartesiana e moderna della filosofia in scienza del soggetto assoluto. La filosofia di Heidegger è intessuta di metafisica nei tre elementi del suo metodo fenomenologico, del punto di partenza ontico, della sua direzione ontologica, rivolta all’essere e al suo essere nulla rispetto all’ente.

La metafisica è una scienza trascendentale, nel senso che gli oggetti che indaga non possono essere accostati e colti direttamente dalla percezione sensibile ma emergono dalle relazioni che la pluralità di enti che compongono il mondo, lo spazio, il tempo, la materia intrattengono tra di loro; enti che anche altre scienze studiano e che la metafisica riconduce a unità di senso – diventando epistemologia – e a unità di struttura – diventando ontologia.

Un atteggiamento metafisico implica l’andare oltre la dualità realismo/trascendentalismo. Il realismo si illude di poter pensare il mondo senza transitare dalla complessità del corpomente che ne elabora i significati. Il trascendentalismo si illude di poter rendere conto dei modi e dei limiti della conoscenza senza ammettere che essa inizia sempre dalla materia che c’è e rimane immersa nella prassi esistenziale ed ermeneutica in cui la vita procede e si raggruma. Non potremmo esistere se non fossimo parte di un mondo che ci precede e che c’è indipendentemente da qualunque sguardo.

La metafisica è dunque uno dei modi più articolati e più fecondi di sperimentare la complessità degli enti, degli eventi, dei processi. L’essere non si limita agli enti particolari, ai singoli grumi di materia spaziotemporalmente estesa, ma comprende anche le proprietà generali di tali enti, le relazioni degli enti tra di loro e con gli eventi, l’insieme dei processi che si generano da tali interazioni.

Al di là della logica parmenidea, al di là della fisica teologica di Newton – immersa per intero nel principio abramitico di un Dio eterno e trascendente, oltre che nella prospettiva dei platonici di Cambridge, come è evidente anche nelle definizioni da lui date di spazio e di tempo –, va detto che “the elucidation of meaning involved in the phrase ‘all things flow’ is one chief task of metaphysics: il chiarimento del significato insito nella frase ‘tutto scorre’ è uno dei principali compiti della metafisica”5.

L’essere è infatti insieme e inseparabilmente flusso e permanenza, poiché ogni mutamento ha senso in quanto qualcosa rimane e, di converso, il permanere di un ente si staglia sull’orizzonte del suo mutare.

La metafisica è dunque da intendere non come fondazione/fondamento ma come comprensione di questo ininterrotto eventuarsi in cui mondo, materia e umanità consistono. Metafisica non come soggettivismo/idealismo ma come schiusura, apertura e compenetrazione del mondo umano dentro il mondo spaziotemporale che lo rende ogni volta e di nuovo possibile.

La relazione tra la presenza e l’assenza è uno dei nuclei stessi della metafisica, la quale è un discorso sul visibile a partire dall’invisibile. Anche per questo, in relazione alla mente umana, la verità assume la struttura di una luce che affranca dall’errore. La forma platonica è una manifestazione temporale nella quale l’essere e gli enti “vengono alla luce”, in tutti i sensi di questa espressione.

Il velo, il buio, il falso, consistono nella riduzione dell’essere alle cose, nel far coincidere senza residui la realtà con una sua parte. E invece la luce, la verità, la realtà consistono nel gesto teoretico che vede e comprende l’intero, il Πλήρωμα, di cui i singoli enti sono manifestazione. La verità è un processo di conoscenza capace di individuare la radice nascosta di ciò che si mostra, la struttura formale della materia. La metafisica è questo duplice, sempre ripetuto e fecondo interrogativo sull’essere e sulla verità.

Al di là dei dualismi dei quali la metafisica è stata pur intrisa – primi tra tutti quelli di mente e mondo, soggetto e oggetto –, al di là della sterile distinzione fra teoria e prassi, l’oggetto della metafisica è l’essere nella sua unità molteplice e dispiegantesi nel tempo. L’essere è l’evento del generarsi, a partire dal quale gli enti possono essere pensati, compresi e detti perché si schiudono, si mostrano e appaiono, emergono nella luce.

Viventi o meno che siano, gli enti costituiscono lo schiudersi della materia nello spazio e nel tempo, il suo manifestarsi e splendere; in termini heideggeriani la sua Lichtung e in termini eraclitei luce – Φῶς / φάος – e φύσις, il venire a manifestazione della ζωή, dell’energia che si raggruma in consapevolezza, vita, tempo. Non quindi la banale ed equivocante parola natura ma l’inorganico, il vegetale, l’animalità, l’umano e gli dèi, tutti convergenti nel tempo che, pur in modi diversi, essi sono.

L’umano è dentro questo plesso e, come tutti gli enti che sono una parte e non l’intero, non genera da sé la luce dentro la quale è immerso. Egli sta nella luce che lo precede, che lo intesse e che lo segue. Questa luce è il tempo. È dal divenire, infatti, che si coglie l’essere, è dal χρόνος che si apprende l’αἰών, è dall’oscurità – che sembra involgere ogni inizio e ogni fine – che si può scorgere il lucente.

Metafisica vuol dire anche e pertanto un tentativo sempre in atto e sempre rinnovato di comprendere la molteplicità unitaria del mondo e la differente identità delle cose; vuol dire il rispetto per la complessità del reale e dunque la disponibilità a percorsi difficili e impervi; vuol dire la consapevolezza che per quanto si possa estendere la nostra conoscenza, l’invisibile e l’ignoto rimangono parte essenziale dell’esperienza umana, perché il mondo è fatto di suoni e di silenzio, di tenebra e di luce, di presenza e di assenza, di permanenza e di trasformazione. Anche questo è l’infinito oceano della differenza, anche questo è il cuore sempre vivo della metafisica.

Alberto Giovanni Biuso

Note:

1. E. Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Carocci, Roma 2021, p. 45. I numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro saranno indicati nel testo tra parentesi. Mechane, n. 3, 2022 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine Web: mimesisjournals.com/ojs/index.php/mechane • ISBN: 9788857594873 • ISSN: 27849961 © 2022 – MIM EDIZIONI SRL. This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).

2. V. Possenti, Ritorno all’essere. Addio alla metafisica moderna, Armando Editore, Roma 2019, p. 139.

3. R. Schürmann, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger (Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir, 1982; edizione inglese 1987), trad. e cura di G. Carchia, Neri Pozza Editore, Vicenza 2019, § 2, p. 48; i numeri di paragrafo e di pagina delle successive citazioni saranno indicati nel testo tra parentesi.

4. E. Severino, Heidegger e la metafisica, Adelphi, Milano 1994, p. 342.

5. A.N. Whitehead, Process and Reality. An Essay in Cosmology (1929), corrected Edition edited by D. Ray and D.W. Sherburne, The Free Press, New York-London 1978, p. 208.

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