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Metapolitica

La cultura dominante è in crisi: dominio, subalternità… la fine

Francesco Marotta, responsabile per l’Italia del GRECE (Groupement de Recerche et d’Études pour la Civilisation Européenne), interviene oggi nel dibattito su Ideario 2023 con un’analisi sugli errori di una destra partitica in costante difficoltà sul fronte culturale.

Da un quindicennio a questa parte la cultura dominante è in crisi? Cosa c’è di vero in questa convinzione e cosa cova sotto le ceneri ? La cultura dominante ha i giorni contati, cosi dicono. Diciamo che ci sono degli equivoci di fondo. Il primo su tutti è quello di pensare che una certa mentalità che ha dato ampio sfoggio della sua onnicomprensività nell’intero aggregato politico e sociale (votata all’individualismo, all’utilitarismo e alla legge di mercato), possa abdicare, da un giorno all’altro, senza battere ciglio. Cosa che puntualmente non accade, in quanto la mentalità in questione alberga allegramente anche nelle compagini della società che si ritengono essere “immuni” e anti-sistema.

Un essere “anti-qualcosa” che non significa nulla se non in senso reazionario: pensando che basti contrapporre delle idee e delle azioni solo come risposta ad altre idee e azioni, spesso direttamente provocate e determinate, proprio dalla mentalità dominante e dal potere. Questo però non significa che non ci sia nulla sul nascere che si contrappone alla dura lex neo-liberale. In ambito culturale quasi nessuno pensa a cosa fare, alla formazione di nuovi soggetti che possano rendersi autonomi dalle tendenze in auge e dalla culturalizzazione imperante, aiutando una trasformazione che è già in atto. Ma c’è un perché e qualcuno non ha capito che i tempi sono giunti al termine, mostrando tutte le aporie, le contraddizioni e le fragilità.

Nel lontano 1922 nel suo saggio “Economia e società”, il sociologo Max Weber mise in evidenza tre tipi di potere: «il potere tradizionale», «il potere legal-razionale» e quello inerente il «carisma». La visione completa di cosa sia «il potere tradizionale», un potere che poggia su delle usanze esistenti da secoli e da cui deriva la sua autorità accettata da tutti, è un qualcosa di sconosciuto alla destra. L’immancabile «cesarismo» cognitivo, più l’individualismo metodologico ed i tic delle congreghe settarie e autoreferenziali ne caratterizzano i limiti dinnanzi la cultura egemone.

Certamente, il potere del «carisma» non può essere confuso con quello religioso e teologico. Trattasi del tipo di potere che indica il complesso, le facoltà ed i poteri straordinari che possiede una persona ma anche una data comunità, culturale o economica nella società, consentendogli l’assunzione di un ruolo preminente. L’assunzione di questo ruolo, include la capacità di esercitare, grazie alle doti intellettuali, il fascino e la facoltà di ravvivare l’interesse nella sfera del sapere e delle conoscenze così come un forte ascendente sugli altri e per assumere la funzione di guida nel campo delle idee e del pensiero.

A destra è invece ben conosciuto «il potere legal-razionale», il «legalismo» conservator-liberale, il «razionalismo culturale» in funzione dell’elettoralismo e del proselitismo a favore delle “marche private” del partitismo, dei movimenti e delle correnti di pensiero. Pur differenziandosi in parte dalla concezione giusliberale di matrice progressista, da quella moralisticheggiante esercitata dalla sinistra del “diritto ad avere diritti”, quest’ultima gode di una posizione privilegiata in ambito scientifico, giuridico, nell’istruzione, in ambito accademico, scolastico, nei media e in tutti i mezzi di comunicazione massmediali, compresi quelli sotto l’egida della destra. La realtà Mediaset, la TV di Stato, la guida e le redazioni dei principali quotidiani, sono emblematici. Inoltre, secondo alcuni osservatori, la cultura vista da destra pare una diversa «cultura del piagnisteo», improntata sulle lagnanze per la mancanza di spazi e agibilità, sull’immobilismo storiografico, cinta dal culturalismo e dalla presunzione di intercambiare la cultura in senso stretto con la cultura di governo o di apparato.

Secondo altri osservatori, la destra è vittima del complesso di inferiorità culturale in rapporto alla sinistra, rivendicando una cospicua produzione intellettuale che viene sistematicamente snobbata se non boicottata dalle “sensibilità” di sinistra, di cui nessuno si accorge. Un mugolio che non tiene conto di un pubblico che preferisce un tipo di cultura diversa, spesso proveniente dalle rare eccezioni che non si riconoscono più nel novero della destra tradizionalista e istituzionale, di una destra e di una sinistra che neppure si potrebbero definire tali. Per quest’ultime, è giunto da un pezzo il momento di uscire dalla gabbia auto-impostasi, scegliendo di dialogare, meditando idee che esulano dalla ricerca di “un posto al sole”, posizioni o benefici che siano, che arrivano “dalle briciole” sotto il tavolo della destra al Governo o della sinistra all’opposizione. L’attecchimento dei valori neo-liberali, di quelli progressisti, della cultura del conservatorismo liberale e del progressismo messianico hanno poca presa se non nulla. È un tipo di cultura che non si riconosce nei separé imposti dall’egemonia dominante, a volte ma non spesso cogliendone solo alcuni aspetti. È già abbastanza, anche perché…

L’intendere la “cultura” della destra, di centro o di centro-destra, è circoscritto a quei condizionamenti di un’antropologia umana dedita ad una cultura politica ed economica: dagli interscambi utilitari alle nuove forme di pubblicità, dalla cultura ridotta alla mera prestazione del modello della sharing economy dalle deprecabili idee di una cultura dedita alla commercializzazione totale al «Sistema» della concorrenzialità, dal perseguimento di un interesse che non trascende le categorie di destra e di sinistra. Le trasformazioni dei dominii della cultura sono viste come un avvicendamento imposto dalla fede cieca nell’evoluzionismo culturale (la destra radicale ne ha fatto un caposaldo), se non rappresentare il frutto dell’immancabile darwinismo anch’esso applicato alla cultura.

Il produttivismo culturale di destra con l’intento di superare la sinistra (altro errore della destra), aiuta solo lo sparuto numero di intellettuali che hanno già avuto la possibilità di mettersi in mostra nei programmi radiofonici o televisivi, senza riuscire a spostare di una virgola l’egemonia e la gestione del potere culturale, neo-liberale e progressista. Alcune volte, persino prestandosi al ruolo di “punching-ball” o di “sparring partner” contro un’ideologia da “Medioevo”, indicata come tale dalla sinistra. Bisogna pur dire che questo capita a chiunque la pensi diversamente dal codazzo che imperversa a reti unificate.

A questo, vanno ad aggiungersi i fraintendimenti sulla metapolitica, cercando di delinearne le peculiarità ma al contempo accrescendone le cattive interpretazioni di carattere ideologico. Il problema principale della cultura di destra, è la poca volontà di trovare delle risposte adatte ad un’epoca che cambia in continuazione, affidandosi agli arzigogoli della sua parte politica che non va più in là di una massima del “Gattopardo “di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «c’è ancora una verità italiana: tutto cambia perché nulla cambi». Guadandosi bene dal pensare che se è vero ciò, lo è anche il proseguo della massima che non dev’essere solo citata ma letta e compresa, fino in fondo: «se tutto cambia esteriormente, tutto rimane com’è; se tutto rimane com’è, tutto può cambiare interiormente». Soprattutto, in rapporto a quelle idee che svolgono un ruolo fondamentale nelle coscienze collettive e nella storia degli uomini, così tanto sbertucciate dalle nomenclature di partito.

Alle quali non interessa affatto cosa sia il risultato della volontà e dell’azione degli uomini che si esercitano sempre nel contesto di un certo numero di convinzioni, di credenze, di rappresentazioni che conferiscono loro un senso e le orientano. A destra non c’è nessuna ambizione nel contribuire al rinnovamento di queste rappresentazioni socio-storiche, tanto meno per le grandi rivoluzioni decisive scaturite dalle menti di Aristotele, Eraclito, Agostino, Tommaso d’Aquino, Cartesio, Immanuel Kant, Adam Smith, Karl Marx e qualunque ne sia l’esito, nefasto o meno, conta poco. Figuriamoci rendersi conto di quanto il potere neo-liberale usa la libertà invece di opprimerla, seducendo, senza bisogno di negare o di reprime la libertà di pensiero e le visioni diverse su cosa sia la cultura. Sfruttandole, alacremente.

Per la destra il nemico numero uno è la figura dell’intellettuale, colui che pensa ed è dotato di intelletto, «colui che cerca di capire e di far capire» come ha scritto giustamente Alain de Benoist, continuando ad adagiarsi sugli allori di una governabilità insperata. Perdendo di vista, qui Gramsci aveva ragione, una visione d’insieme su cosa sia «la robusta catena di fortezze e di casematte» della società civile e rivendicandone, erroneamente le peculiarità, come un qualcosa di inestimabile valore. La grande sfida alla quale la destra ha rinunciato da tempo, mentre la sinistra non ha perso di vista l’obbiettivo: è l’agire sul piano delle idee attraverso l’informazione, la scuola, il cinema, la musica, l’arte, i nuovi mezzi di espressione, dalla grafica al fumetto, influenzando i meccanismi del consenso. Giova ricordare che la metapolitica non può essere accostata al pragmatismo dei serbatoi di voti e di chi li crea, cosa che dovrebbe essere scontata.

Inoltre, le “strategie” politiche che nulla centrano con il concetto metalinguistico che va al di là della politica, servono a poco. Trattasi di capriole concettuali che hanno come unico scopo quello personale, di una visione delle cose da stakeholder ben addentro alle iniziative politico-economiche, “titolari di una posta in gioco” e portatori di un interesse particolare e null’altro. Tentare di incidere solo politicamente, dimenticando di attrezzarsi in maniera adeguata alle sfide della fine della postmodernità, affidandosi esclusivamente all’opportunismo, all’impreparazione e disconoscendo la propria identità, porta dritti ad un solo risultato: «finendo per essere la pedina di giochi altrui» (“Le nostre idee emarginate dall’opportunismo dei partiti”, intervista di Luigi Iannone a Marco Tarchi, Il Giornale, 16/12/2018).

Continuando a discorrere della destra ex missina e aennina, ora alla prova del nove, campeggia a chiare lettere il non voler allontanarsi minimamente dal solito americanismo, facendo viaggiare a pieno regime il suo way of life e la sua idea di cultura: la fede cieca nei cenacoli, nelle ricette economiche e culturali dell’Aspen Institute, sfruttando ciò che rimane delle fondazioni di partito, favorendo così i giovani conservatori neo-liberali dotati di una fluente parlantina ma con poca conoscenza degli argomenti trattati. E ben dotati dello stesso vizietto che impone loro di fare il solito giro, in cerca di consenso, dai due sacrestani alle due perpetue. Il risultato è ciò che vediamo in TV e sui giornali, quello che Gustav Mahler temeva come la peste, l’uso improprio delle tradizioni e della cultura: «adorare le ceneri», facendo così spegnere il fuoco della rigenerazione delle tradizioni e della cultura, ridotte a macchiette, a vittime illustri dell’agone in cui regna pressoché indisturbato, il pensiero dominante.

Nulla che faccia pensare ad un dibattito pubblico serio, contemplando una critica (krinein, differenziare ed evidenziare)che non si perde nello sminuire, nel mettere solo in luce i difetti e le storture della nostra epoca e società, reggendo il moccolo e/o il gioco delle parti. Il vuoto pneumatico degli slogan banali e delle frasi ad effetto ha la meglio su ciò che andrebbe fatto: lasciare che il differente sia visto come tale nella sua differenza. Magari, cominciando dalla fine della «disneyzzazione del mondo», dal corollario del «Sistema» delle dipendenze, da un’Unione Europea solo economica e scambiata con l’Europa (le sue comunità, la forza delle differenze, più una cultura condivisa), dalle problematiche dell’uniformismo e della centralizzazione della UE e dell’Italia, compresi l’economicismo che impera, l’egalitarismo, l’universalismo e lo sradicamento che uniformano le differenze culturali. In più le difficoltà dovute alla «cultura woke», nata nei campus che piacciono alla destra, quelli americani, sono sottovalutate. Stessa e identica cosa accade quando è necessario porre le basi per mettere un argine all’individualismo epistemologico, al razionalismo generalizzato che poggia su di un progressismo messianico, etc.

Per non parlare del ruolo del Vecchio Continente e di quello geopolitico tra l’incudine e il matello, ragionando sugli effetti nocivi della sempre più evidente Cortina di ferro, sul ruolo e sulla scelta di un posizionamento nella NATO che non ha più ragione d’essere e sulla spoliticizzazione della Politica. Uno dei problemi principali della società attuale è essere un ammasso di atomi scollegati uno dall’altro, rifiutandosi a priori di dibattere i grandi problemi della globalizzazione e della mondializzazione quasi mai menzionati se non a sproposito, persino lodandoli. Evidentemente, quello di destra è un discorso che include pure il non voler cambiare nulla della lottizzazione della Televisione di Stato, dell’informazione e della cultura in mano alla sinistra, al rovescio di una medaglia che è complementare, avendo tra le mani i ministeri più importanti.

Le piccole bandierine di destra, guadagnate con la corsa al potere, rischiano di diventare un problema. Lo sono sia per i motivi che abbiamo discusso e sia per la poca conoscenza di cosa influisce realmente al di fuori della conquista del potere politico. Un esempio non molto lontano nel tempo, giunge dai tre anni di Marcello Foa alla guida della RAI. Nessuno si è mai accorto del cambiamento, neppure i detentori dell’egemonia culturale che hanno continuato a decidere, facendo ciò che volevano. Questo accade in TV, nell’informazione come nell’editoria, nell’arte come nell’istruzione, i quali dovrebbero essere realmente fruibili a chi ha delle capacità e non ad appannaggio di consorterie partitico-ideologiche che si spartiscono, parecchio a sinistra e meno a destra, il potere sulla cultura.

A destra conta un’egemonia retta dal rispetto della “par condicio”, nemmeno tanto interessata all’argomento. A sinistra invece, il predominio sin troppo evidente degli esperti del Progresso, incomincia a vacillare ma non certo a causa degli eredi di Gentile e di Pareto. Per cambiare le cose non serve fare affidamento su di una neutralità che di suo non ha senso, figurarsi poi se è conformista e indisturbata grazie ad una dicotomia che è la massima espressione, in politica e nella cultura, di una mentalità e di una civiltà morenti. La sovranità di un popolo passa anche attraverso la cultura, in quanto è uno degli strumenti più importanti del suo potere.

(Francesco Marotta, “La cultura dominante è in crisi: dominio, subalternità… la fine”, quotidiano ElectoMagazine, https://electomagazine.it/, 20/12/2022)

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