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Metapolitica

Resilienza? Il resiliente è il cittadino che non si ribella mai

Resilienza
Aldous, 23 febbraio 2023

Nonostante la sistematica falsificazione dei fatti, delle loro ragioni, delle notizie che li veicolano, è evidente che «la quatrième guerre mondiale a commencé en 1991. C’est la guerre des États-Unis contre le reste du monde, guerre multiforme, aussi bien militaire qu’économique, financière, technologique et culturelle, indissociable de l’arraisonnement général du monde par l’illimitation dissolvante de la logique du capital; la quarta guerra mondiale ha avuto inizio nel 1991. È la guerra degli Stati Uniti contro il resto del mondo, una guerra multiforme, sia militare, sia economica, finanziaria, tecnologica e culturale, inseparabile dalla generale conquista del mondo mediante la dismisura distruttrice della logica del capitale» (Front populaire, 30.8.2022 [https://frontpopulaire.fr/culture/contents/alain-de-benoist-leurasisme-de-douguine-est-incompatible-avec-le-nationalis_co13891408).

Una guerra a densità ‘bassa’ ma costante, combattuta in alcuni luoghi direttamente ma molto più spesso per procura (ora in modo evidentissimo in Ucraina) e con gli ovvi vantaggi che questo comporta per l’economia, la politica e i cittadini USA, che distruggono le altrui economie e altrui vite, conservando e garantendo le proprie. E tutto questo, naturalmente, in nome dei valori, in nome dell’imperialismo del Bene, tramite un’etica il cui decalogo è sintetizzato con precisione dalle norme che guidano Oceania, lo Stato in cui accade 1984:

«LA GUERRA È PACE

LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ

L’IGNORANZA È FORZA»

(trad. di G. Baldini, Mondadori, Milano 1998, p. 8).

Conferma di questa etica del terrore sono l’esistenza e la diffusione, in molti documenti politico-istituzionali, degli RSA, che in questo caso vuol dire «Indicatori di Responsabilità Sociale e Ambientale». Un’etica che diventa, come spesso accade, religione. La religione utilizzata da alcuni ingegneri sociali e visionari delle distopie (Schwab, Gates, Soros e altri miliardari) per imporre una struttura e soprattutto una forma mentis oligarchica all’Occidente contemporaneo.

I capisaldi di questa RSA coniugano infatti la questione ambientale a quella delle migrazioni, del multiculturalismo, dei vaccini, del gender, del contante, in un minestrone solo apparente, il cui ingrediente unificatore è il vantaggio di pochi mascherato dall’interesse dei molti. Nulla di nuovo, naturalmente, ma sono nuove le modalità di trasmissione del verbo salvifico, le modalità potenti, immediate, particolarmente persuasive della Rete e in generale dell’informazione, che è in mano agli stessi soggetti indicati qui sopra e ai loro più o meno identici colleghi sparsi tra le Borse del pianeta.

Il dispositivo politico-teorico di queste crociate per l’ambiente, per l’inclusività e per la trasparenza è molteplice ed è incentrato in particolare sulla tesi novecentesca della disumanità del nemico e su quella del XXI secolo della resilienza.

La prima venne utilizzata dal presidente USA Thomas Woodrow Wilson già nel discorso del 2 aprile 1917 con il quale annunciava l’entrata in guerra contro la Germania e dunque contro gli Imperi Centrali. In quell’occasione Wilson giustificò l’intervento del suo Paese in Europa parlando della guerra navale condotta dalla Germania non come un gesto di pirateria ma come una guerra contro l’umanità.

I successori di Wilson, sino a Obama e Biden, non hanno fatto altro che ripetere tale formula adattandola alle diverse circostanze e avversari del momento. La disumanizzazione del nemico è la condizione per ergersi a unici umani, per ridurre la controparte alla condizione di una bestia contro la quale tutto è permesso. Di più: tutto è giusto, etico e necessario. Lo è anche quanto il Segretario di stato del secondo mandato Clinton – la signora Madeleine Albright – dichiarò alla Cbs a proposito del mezzo milione di bambini morti durante la guerra degli USA contro l’Iraq. A una specifica domanda, la signora rispose in questo modo: «So benissimo che si è trattato di una scelta difficilissima, ma noi siamo convinti che sia stata una scelta perfettamente legittima».

La più nuova (apparentemente) resilienza è l’atteggiamento necessario a rendere sentimento di massa l’accettazione di questa barbarie. È dunque vero che «il ricorso alla resilienza e poi sempre più l’invito alla resilienza hanno sempre giocato, seppure in varie versioni, il gioco dello status quo e dell’accondiscendenza a presunte cause di forza maggiore, imperativi del mercato e così via» (Editoriale di «Mechane. Rivista di Filosofia e Antropologia della Tecnica», vol. 3/2022, Mimesis, Milano-Udine 2022, p. 9).

Il resiliente è il cittadino che non si ribella. Mai. Che si ritiene abbastanza forte da vivere libero nonostante l’autonascondimento della propria schiavitù. Che introietta il trauma vedendo in esso un fattore di miglioramento e di serena rassegnazione. Che cerca di resistere al dominio iniquo non ribellandosi a esso ma aspettando che passi. Il transito di questa parola dall’ingegneria e dalla scienza dei materiali all’ingegneria del materiale umano è stato promosso dal libro di uno psichiatra – Boris Cyrulnik – il cui non casuale titolo è Un merveilleux malheur (Editions Odile Jacob 1999), Il dolore meraviglioso, nella traduzione Frassinelli del 2000, ma che si potrebbe tradurre anche come una meravigliosa disgrazia.

Ma anche qui niente di particolarmente nuovo. Come siciliani conosciamo da secoli il resiliente invito racchiuso nelle parole «Calati junco ca passa la china», piegati o giunco, sino a che non sarà trascorsa la piena. Il rischio però è che la piena trascini con sé tutti noi. 

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