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Cioran, profeta della disperazione e dell’estasi

Al di là delle vane e mediocri polemiche sui suoi impegni politici giovanili e delle sue «colpevoli» simpatie per il movimento legionario di Corneliu Codreanu, Emil Cioran resta una delle figure letterarie più significative del XX secolo. Radicalmente scettico, mescolando abilmente poesia e filosofia, offre al lettore profondità di riflessione sulla condizione umana, sulle sue miserie, sulla sua follia e sulle sue incoerenze. Una grande scoperta letteraria da parte di Jacques Chambray.

Mi è apparso per la più felice delle coincidenze. Niente faceva pensare alla scoperta dell’autore che avrebbe rivoluzionato tutto il mio rapporto con la letteratura, la scrittura e il pensiero. L’autore i cui schizzi a penna sono stati battuti con una mazza. In realtà, stavo solo cercando di ammazzare il tempo senza sentirmi un completo fallito: rintanato in casa, con la retina fritta davanti allo schermo del telefono, ho scorso un elenco di video che riassumevano il pensiero di grandi filosofi. Tuttavia, solo uno di essi riguardava un pensatore di cui i miei occhi non avevano mai scrutato il nome. Prima di guardarlo, mi immaginavo come uno di quegli insopportabili scribacchini contemporanei, quelli a cui piace definire i propri scritti come «impegnati», parola senza senso se mai ce n’è stata una. Chissà perché? C’è da dire che il cinismo ha trovato nella mia pigrizia il suo terreno più fertile.

Immaginate quindi la mia sorpresa, quando una voce soave mi ha descritto i tormenti, i divagamenti e i voli lirici di questo rumeno dalle opere inclassificabili. Ci sono certe parole, certe idee che brillano nella nostra coscienza con chiarezza profetica. E così mi sono incamminato per un lungo cammino disseminato di aforismi e poesie, disperazione ed estasi, santi e cadaveri.

Una disperazione incandescente

Emil Cioran è nato nel 1911 a Rășinari, un villaggio rumeno ai confini dimenticati dell’Impero austro-ungarico. Uomo di paradossi, la sua ispirazione letteraria traeva la sua fonte non dalla pienezza, ma dall’assenza. Va detto che, dopo un’infanzia immersa nella serenità dei Carpazi, è stato vittima, durante l’adolescenza trascorsa a Sibiu, di una tragedia significativa: l’insonnia. «Cos’è una crocifissione unica, rispetto a quella quotidiana che subisce l’insonne?», scriveva in L’inconveniente di essere nati. Questa incapacità di dormire fa nascere il sentimento di una persona marginale condannata al vagabondaggio, come un vero Diogene della moderna Sinope.

Ma chi se non uno scrittore può dare sostanza al nulla e creare abbondanza dall’assenza? Tutto il suo lavoro, confidò in un’intervista del 1989, trovava la sua origine in questa insonnia: «Uscivo verso mezzanotte, l’una, e camminavo per le strade. C’eravamo solo io e poche puttane in questa città: il silenzio totale, la provincia… Per ore ho camminato per le strade. Come una specie di fantasma. Tutto quello che ho pensato, tutto quello che è stato elaborato [è stato] durante quelle notti». Ciò che seguì fu un’antologia di libri scritti prima in rumeno, poi, dopo il suo trasferimento a Parigi negli anni Quaranta, in francese. Ha vissuto lì fino al suo ultimo respiro, nel giugno 1995.

La prima singolarità di Cioran nasce dalla sua stessa concezione della filosofia. In effetti, rifiutava il sistema filosofico in sé, in quanto gli ispirava ilarità nella migliore delle ipotesi e disgusto nella peggiore. Impossibile, diceva, che un sistema ben ordinato possa regolare l’esistenza, che è per sua natura paradossale e anarchica. Da qui la scelta di Cioran di esprimersi per frammenti: i suoi libri sono composti solo da aforismi o brevi testi, senza un collegamento o un filo conduttore. Solo questa forma di scrittura ci permette di avvicinarci alla vita, all’eterna metà della luna, sia al suo lato illuminato che a quello nascosto; non cercare di armonizzare le disparate onde della mente, ma ascoltarle per sorprendere, tra le dissonanze, la musica sorprendente. Sbagliava chi criticava i libri di Cioran per il loro aspetto contraddittorio. Non sapevano che il loro autore cercava soltanto di sottolineare, spesso con ironia, i paradossi dell’uomo e dell’universo, tanti quanto le sinapsi dell’uno e le stelle dell’altro.

Una moltitudine di frammenti per catturare il mondo

Questo modo di esprimersi attraverso il frammento è molto più attraente per la spontaneità e la forza del pensiero. Sfogliando le sue pagine verrebbe da chiedersi se si trattai di un libro di filosofia, oppure di una raccolta di impressioni, sentimenti, pensieri cupi, vertigini celestiali e coltelli conficcati nel cuore. Questa impressione, del resto, è corretta. Questa era la ragione per cui scriveva. Non scriveva per fare libri in senso stretto, ma per cercare la catarsi: «Se non avessi potuto esprimermi, mi sarei concesso più di un eccesso. […] Ciò che ho provato negli anni si è trasformato in libri ed è come se questi libri si fossero scritti da soli. […] Ti do questo consiglio: se odi qualcuno senza volerlo particolarmente eliminare, segna cento volte il suo nome seguito da “ti ammazzo”. Dopo mezz’ora ti sentirai sollevato. […] Nei manicomi ogni degente dovrebbe essere dotato di tonnellate di carta su cui poter scrivere. Esprimersi come terapia». In fondo, lungi dall’affermarsi come un letterato, si considerava semplicemente come il «segretario dei suoi sentimenti».

A Cioran sono state spesso affibbiate varie etichette nel vano tentativo di categorizzarlo. Quella di «nichilista» ricorre più spesso, soprattutto tra chi ha meno familiarità con la sua opera. Pur detestando etichette e «-ismi» di ogni tipo, Cioran provava una certa tenerezza per lo scetticismo, l’esatto opposto, in questo caso, del nichilismo: il nichilista non crede a nulla, lo scettico dubita di tutto.

Accanto a questa forza di idee, dobbiamo parlare del suo stile. Ah, che stile, che scrittura! Abbiamo mai visto qualcuno combinare così brillantemente poesia e aggressività, gentilezza e violenza? Ogni libro di Cioran è una rosa in cui lamette insanguinate si mescolano ai petali. Dalla sua penna troviamo scritti non solo commoventi, ma anche straordinariamente lirici, con nuovi colpi di scena, prendendo in prestito da lessici religiosi, medici e filosofici. Dimostrando un’incomparabile padronanza del francese, cantava o lamentava il suo rapporto con Dio, esprimeva il suo fascino per la musica e la storia, la sua ambivalenza verso l’esistenza, il suicidio e la morte – «Il desiderio di morire era la mia unica e sola preoccupazione; Gli ho sacrificato tutto, anche la morte» – così come il suo amore per le belle lettere: «Sogno un mondo in cui moriremo per una virgola» (e io per un punto e virgola). Sì, «al culmine della disperazione», Cioran ha strappato dal profondo di sé i suoi difetti per vestirli di misticismo, romanticismo e bellezza. Anche se si scorresse tutta la sua opera, si farebbe ancora fatica a trovare una sola frase che non sembri scarabocchiata sull’orlo di un precipizio, all’ombra di un sudario, oppure, al limite del misticismo, durante un’ascesa verso il regno celeste, dove i santi si inebriano di beatitudine.

Scrivere sull’orlo del precipizio

Sarebbe impreciso, e soprattutto banale, dire che Cioran sia stato semplicemente uno scrittore che «ci ricorda la nostra umanità». Piuttosto, questo filosofo rumeno ci offre un accesso privilegiato ai recessi sepolti della nostra anima, recessi dei quali sospettavamo a malapena l’esistenza. Come descrivere questa beata sensazione quando all’improvviso dentro di noi si fa clamore ciò che prima era solo un sussurro? Come se queste pagine, dall’alto della nostra libreria, ci aspettassero pazientemente, fino al giorno in cui finalmente, alla vista dei nostri occhi stupiti, avrebbero proclamato: «Vedi? So già tutto».

Per molti artisti, i maestri ispiravano una tale ammirazione da trasformarsi in un opprimente sentimento di inferiorità. In questo tipo di situazione, ci sono tre strade possibili: smettere di frequentarli; abbandonare la propria arte; o, infine, continuare ad apprezzare le loro influenze continuando il proprio lavoro, ma portando per sempre questo imbarazzo dentro di sé. Jacques Brel scelse la prima opzione: smise di leggere Baudelaire, perché si trovò patetico al suo confronto. Una mia parente, residente in California, ha intrapreso per un certo periodo la carriera di pittrice, ottenendo anche un certo successo, fino al giorno in cui ha visitato il Museo Picasso di Barcellona. Lei scelse la seconda opzione: non avrebbe mai più ripreso in mano il pennello.

Non avendo il coraggio di scegliere tra queste due strade più radicali, ho optato per la terza. Lungi da me l’idea di abbandonare la scrittura, ancora difficilmente mi rendo conto di quanto sono fortunato ad aver trovato un autore che mi tocca così profondamente, eppure… eppure capita di tanto in tanto, quando leggo un brano di Cioran nella mia colossale edizione completa, di trovare i miei versi semplici ben al di sotto del sublime della sua prosa, e molto tiepidi di fronte ai suoi fuochi selvaggi. Per un momento, la mia penna sembra pesare una tonnellata. Solo un attimo, prima che suoni il campanello che mi ricorda di scrivere. Anch’io sono solo il segretario delle mie sensazioni.

(Jacques Chambray, Cioran, prophète du désespoir et de l’extase, Revue Éléments, 3/11/2023)

Traduzione a cura di Piero della Roccella Sorelli

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