E se, proprio come Nietzsche, Heidegger fosse visto come una medicina per la nostra civiltà? Sicuramente non una medicina che sradica, che debella, una malattia; ma una medicina che cura, una medicina che porta una certa pace, una certa serenità, un equilibrio nella lucidità, che ci riconcilia con il mondo, con il corpo e i suoi mali che inevitabilmente si accompagnano alla sua felicità? Heidegger, medicina contro la modernità, che è il dominio del mondo, e anche medicina contro la postmodernità, che è il momento in cui i dominanti sono essi stessi dominati dai dispositivi e trascinati da flussi incontrollati? È questa l’ipotesi che il nostro collaboratore Pierre le Vigan, urbanista e saggista, esamina in questo affascinante studio.
Pierre Le Vigan
Heidegger (1889-1976) è ancora al centro delle preoccupazioni del nostro tempo. Heidegger et la question du management, un libro di Baptiste Rappin – un management che va ben oltre il mondo degli affari – ne è una testimonianza. Così come l’influenza di Heidegger sul pensiero del compianto Pierre Legendre, o sul pensiero di Michel Maffesoli. Per dirla in altro modo, Heidegger è inattuale, il che gli permette di essere sempre attuale.
Il prete gesuita William John Richardson aveva distinto (1963) un primo Heidegger, fino al 1927, con la pubblicazione di Essere e tempo, e un secondo, dopo il 1927. Questa periodizzazione non è inutile, indicando un cambio di prospettiva, soprattutto perché Essere e tempo è incompiuto, e Heidegger ritenne più giudizioso modificare il suo angolo di visuale, piuttosto che cercare di completarlo da una posizione che non era più del tutto sua. Ciò rappresenta un movimento di evasione tipico tra i grandi intellettuali; ma un cambiamento di prospettiva non impedisce la costanza di una visione. Quest’ultima consiste nel pensare quella che in termini «eruditi» si definisce differenza ontologica. In termini più comuni è l’abisso, la «bocca dell’ombra», la minaccia del nulla, la consapevolezza della presenza del nulla e il dovere singolare di guardarlo senza sprofondarvi. Come ha ricordato Antoine Dresse, gli antimoderni sono spesso moderni, così moderni, da non nutrire illusioni sugli ideali della modernità. Ciò che caratterizza Heidegger è il rifiuto del nichilismo senza negare per un solo istante la realtà della sua minaccia.
La differenza ontologica: si tratta della differenza tra Essere ed ente, tra Essere e gli enti. Per essere più precisi dovremmo parlare di una differenza ontico-ontologica. L’ontico è il dominio dell’ente, è l’«entità». L’ontologico è il dominio dell’essere. Ma, ben inteso, l’uno non si può pensare senza l’altro, non può fare a meno dell’altro, ed è per questo che, per Heidegger e per noi, si tratta di pensare innanzitutto al «tra» (Zwischen), a ciò che sta tra queste due nozioni e cosa le tiene insieme. Questa questione della differenza ontologica (per usare una parola più semplice di ontico-ontologica), Heidegger la affronta in I problemi fondamentali della fenomenologia, nel 1927. L’osservazione che fa Heidegger è che c’è una storia dell’Essere in quanto c’è una storia dei diversi modi in cui l’Essere è stato pensato. Ma l’Essere è stato pensato sistematicamente in quanto ente, e la questione dell’Essere stesso, in quanto esso non è propriamente l’ente, né gli enti, né soltanto la somma degli enti, è stata ricondotta alla questione della divinità, alla questione degli dei, e soprattutto, con i monoteismi, alla questione di Dio, cioè di una istanza fuori dal mondo (François Jaran, La métaphysique du Dasein, Vrin, 2010). Questa è l’onto-teologia. Questo è ciò che ha dato origine alla successione della maggior parte della metafisica, vale a dire alle spiegazioni del mondo secondo un principio che non è il mondo stesso.
Separazione tra Essere e gli enti
L’onto-teologia riposa, nel suo stesso principio, sulla constatazione della disconnessione tra l’Essere e l’ente. Gli enti sono le cose nella loro singolarità, prescindendo dal fatto che sono manifestazione della natura, della physis (la physis è l’insieme delle cose della natura, ma anche la sorgente stessa della natura. Nessuno ha potuto dire meglio di Spinoza su questo punto: la natura è «natura naturata» ed è «natura naturante»). L’onto-teologia intende porre rimedio a questa rottura (tra Essere ed ente), ma in modo causale e non «insiemista». Spiegando dov’è la causa dell’uno (dell’ente) piuttosto che ricercando ciò che lega un insieme e l’altro. La filosofia sceglie così la strada della teologia per rispondere alla domanda su cosa siano gli enti. Arriviamo così a definire – o almeno a dargli una posizione centrale – un ente supremo, un sovra-ente, un primo-ente. Un ente primordiale, prima degli enti del mondo. Questo è Dio nei monoteismi. Una volta risolta questa questione, il compito dell’ontologia sarà quello di pensare a ciò che gli enti hanno in comune tra loro.
Heidegger propone – questa è la sua novità – di assumere il compito dell’ontologia senza dare per scontata la prima tappa della riflessione dell’onto-teologia, che ci porta sulle tracce di Dio, ente supremo. Per fare ciò, Heidegger pone l’accento non sull’analisi del mondo come dotato di un «motore immobile» o di «primo motore immobile» (Aristotele) ma su approcci originali al mondo, spesso presocratici, ma anche moderni, ma poetici (Hölderlin, Novalis…). Sono quelli di coloro che interrogano il mondo con stupore. Perché viene effettuato un dono? Perché c’è una nascita del mondo? (E cosa importa chi sia il genitore). È la pura fenomenalità del mondo che interessa a Heidegger. Si tratta quindi di cercare il senso dell’Essere al di fuori dell’onto-teologia. In quale «regione» dell’essere possiamo sperare di sentirne la presenza? La risposta è: nel dominio del sacro (Heilige).
Per approcciarsi al sacro, che non è Dio, e che certamente non è nemmeno il contrario del divino, dobbiamo allontanarci dalla questione della creazione del mondo, e dobbiamo interrogarci sulla presenza nel mondo, questione molto più fondamentale. Questa questione della presenza nel mondo e della presenza del mondo, anche in noi, va oltre ogni problema del soggetto, sia esso il soggetto-uomo o il soggetto-Dio. Perché è assolutamente certo che siamo parte del mondo, e che quindi non potremo mai essere osservatori del mondo senza parteciparvi. Questo è ciò che ci aiuta a comprendere la nozione di Dasein. Se Heidegger usa la nozione di Dasein, questo dovrebbe essere inteso come Da-sein (Esser-ci). Questo termine, che a volte è stato tradotto come «esistenza umana così come è presente nel mondo», è, più in generale e più essenzialmente, l’anello mancante tra l’Essere e l’ente. Il Da-sein (Esser-ci) si sperimenta con un «passo indietro» (Schritt zurück) che permette di dimenticare la prospettiva soggetto-oggetto, per vedere il mondo come coincidenza degli opposti, tra Essere ed ente, e addirittura come opposti identitari, che sono solo due volti, uno interno e l’altro esterno, della stessa cosa.
Presenza dell’Essere
Il Da-sein, etimologicamente «essere-qua» (la parola è di Goethe) è l’«esser-ci-qua». È il fatto di essere qua. Cosa è questo quà? È esattamente l’Essere. È il «qua» dell’Essere. È la presenza dell’Essere che è l’Essere in quanto presenza. Il Da-sein non è un soggetto del mondo; è l’apertura al mondo. E’ l’Aperto. «Con tutti gli occhi la creatura vede l’Aperto» (Rilke, Ottava Elegia Duinese). «Vieni all’aperto, amico» (Holderlin, La passeggiata in campagna). L’Aperto, il Da-sein, è l’interrogativo stupito sull’Essere e sul mondo. Sull’Essere del mondo, per dirla in termini decisamente post-teologici. Il Da-sein è dunque ciò che supera la divisione, la colpa, la scissione (Spaltung) tra l’Essere e l’ente. Affermare il Da-sein, liberare l’accesso ad esso, è aprire l’accesso al qua dell’Essere. È aprire la strada verso il qua dell’Essere. Ciò significa che non ci sono, da un lato, le cose banali del mondo, gli enti, e, da un’altra parte, un sacro fuori del mondo, che quindi non può essere sacro perché inaccessibile. (Il rifiuto del sacro da un punto di vista cristiano è un tema di René Girard, che però non ha il monopolio dell’interpretazione del cristianesimo). Superando questa scissione tra gli enti e il sacro, tra l’ente e l’Essere, diventiamo consapevoli della fonte, dell’origine di tutto ciò che è. Diventiamo consapevoli – e fiduciosi – che la physis diventi quello che è. Siamo sorpresi e ammiriamo il miracolo della natalità. Il Da-sein è proprio ciò che fa da ponte tra queste due sponde, quella dell’ontico (l’ente) e quella dell’ontologico (l’essere).
Fare un ponte ti permette di vedere da più in alto. Il ponte permette di rendere presente il paesaggio, lo spazio, il mondo. Il Da-sein è un sentimento della presenza delle cose che permette di comprendere la loro cosità, cioè come sono presenti con tutte le loro caratteristiche specifiche. Come la sostanza dell’Amore si manifesta nell’attaccamento amoroso in atto, così la sostanza del Pane si manifesta nel «pane quotidiano» delle preghiere cristiane. È l’attualizzazione di una sostanza, come nota Michel Maffesoli. Del potere in atto, secondo Aristotele.
Non cercare più le cause dell’ente, ma cercare come gli enti siano un’apertura verso l’Essere, come siano portatori di una porzione di mondo, un frammento di mondo, un mondo in riduzione (dei suoi frattali), ma allo stesso tempo già qua, in che modo attestino la realtà del mondo. Ecco il progetto, antropologico quanto «filosofico» di Heidegger (che preferiva il «pensiero» alla «filosofia»): la realtà del mondo, è la presenza del mondo. Una presenza che si manifesta in modi diversi. Il Da-sein consiste nell’attaccarsi al modo di essere delle cose come testimone del mistero dell’Essere. Il modo di essere delle cose, la loro cosità, è anche il loro hexis (Aristotele), o il loro habitus (in Tommaso d’Aquino, in Bourdieu, in molti altri). È la disposizione dell’essere degli enti, e in particolare degli enti umani. È il modo in cui siamo al mondo, in un modo allo stesso tempo singolare e aperto alla pienezza del mondo, alla sua interezza, alla sua piena estensione (Ganzheit). Questa singolarità è ciò che collega lo specifico e l’universale. È ciò che collega i sensi, il sentimento e l’intelletto, il razionale, l’intelletto, il cosciente.
L’oblio del collegamento
L’oblio dell’essere – tema con cui spesso si riassume il pensiero di Martin Heidegger – è piuttosto l’oblio del Da-sein, l’oblio di ciò che crea il collegamento, di ciò che fa da ponte, tra l’Essere e gli enti. Con questa dimenticanza il mondo si riduce a qualcosa che si può dominare. Si riduce a un dispositivo (Gestell). Un dispositivo in cui gli enti (le cose del mondo) sono strumentalizzati ma in cui noi stessi, a forza di aver voluto essere soggetto di un mondo che sarebbe nostro oggetto, diventiamo oggetti di un dispositivo. In questo senso, possiamo dire che la modernità sia stato il mondo in cui gli enti sono stati messi a disposizione dell’uomo «come padrone e possessore della natura» (Cartesio), e che la postmodernità consista nel fatto che il rapporto soggetto-oggetto perde la sua importanza, l’uomo stesso diventa oggetto del dispositivo, della ragione calcolante, dei processi vari, trascinato da flussi, il cui scopo diventa sempre più difficile da intuire, e comunque da padroneggiare. Questo è quello che è stato chiamato il regno della tecnica, o anche l’inserimento nella megamacchina. Heidegger vede in ciò lo stadio ultimo della metafisica. Gli sembra quindi che sia necessario andare oltre per aprirsi a una nuova saggezza nei rapporti tra l’uomo e il mondo, a un’ecosofia (Félix Guattari, Qu’est ce que l’écosophie ?, 2018 – testi del 1985-1992, Les trois écologies, 1989. Il tema dell’ecosofia è caro anche a Michel Maffesoli, con i suoi toni propri).
Questa nuova saggezza può essere illustrata da una visione del mondo come un Quadrilatero (Geviert). I quattro elementi di questo sito (topos) sono terra, cielo, i mortali e gli dei. Mortali: quindi uomini. Questo tema, che ricorre in «Guardando ciò che è» (Einblick in das was ist), una raccolta di quattro conferenze tenute a Brema nel dicembre 1949 (nelle Questions IV), consiste nel vedere il mondo oltre la possibilità di dominarlo senza limiti e senza la sua messa in forma estetica. Il Quadrilatero può permettere di immaginare una «ripresa» del nostro rapporto con il mondo, una riorganizzazione di questo rapporto, e quindi una guarigione (Verwindung). È un tema degli Holzwege, quei sentieri «che non portano da nessuna parte», dice la traduzione, e che sono in realtà, come ben sanno gli escursionisti, sentieri che portano da qualche parte, a patto di sapersi orientare. Un tema e un modo per superare la nostra crisi (Krinein), che è una malattia del giudizio: non siamo più in grado di giudicare, di ricrederci e di decidere.
Questo senso dell’esser-ci (Da-sein), questa presenza alla presenza, questo «incontro con noi stessi» (Henri Michaux), questa strategia dell’attenzione (al mondo), è questo poter-essere ciò che può permetterci di risentire l’unicità del sacro, cioè il fatto che esso è Uno in molteplici forme, così come la Trinità manifesta in più forme che Dio è Uno, e comunque che la divinità è una. Una attualizzazione plurale di una sostanza comune. Forse sarà allora possibile avvicinarsi ad una certa serenità (Gelassenheit), ad una certa uguaglianza dell’anima, che consente una (relativa) pace dello spirito (apathéia). È ancora l’attenzione alla presenza dell’essere a sbloccare ciò che blocca il cammino che collega l’essere e l’ente. Il Da-sein: ancora e per sempre.
Pierre Le Vigan, Èlèments, Heidegger, médecin de la modernité, 11 settembre 2024. Traduzione a cura di Piero della Roccella Sorelli.
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