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Antropologia

Rêverie solstiziale

1. Indocili all’oscurarsi della luce

C’è un’immagine molto potente contenuta in una delle più belle poesie di sempre, composta dallo scrittore gallese Dylan Thomas e pubblicata per la prima volta nel 1951. Il respiro dei primi tre versi di Do not go gentle in that good night è siderale, abissale:

Non andartene docile in quella buona notte, / Che l’età vecchia bruci e deliri all’oscurarsi del giorno; / Infuriati, infuriati, contro il morire della luce.1

Ultimamente mi sono imbattuto spesso in queste parole, per uno di quei cortocircuiti del destino che gli sciocchi si ostinano a chiamare “casualità”. Li ho ritrovati in luoghi disparatissimi, che vanno dal film Interstellar di Cristopher Nolan – straordinario – al discorso tenuto dall’indologa Wendy Doniger in occasione della veglia funebre organizzata in onore di Ioan Petru Culianu, ucciso alla Divinity School di Chicago nel 19912.

Se li riporto in questa sede è perché credo condensino il significato ontologico del Solstizio d’Inverno, che cade proprio oggi. Una fase che, nelle sue dinamiche, è altresì paradigmatica per indagare l’attuale momento storico-destinale: sotto certi aspetti – moltissimi, ahinoi – esso potrebbe essere considerato come un lungo, interminabile, solstizio dell’Essere.

Ben lungi dal costituire una rassegna esaustiva del significato assunto da questa ricorrenza in varie epoche e civiltà, nelle sue molteplici metamorfosi – tema che richiederebbe, naturalmente, una trattazione ben più ampia –, questo breve saggio intende semmai rincorrerne alcune variazioni sul tema. Consideratelo un divertissement solstiziale, per così dire.

Per comprenderne la potenza, dobbiamo anzitutto abbandonare la visione lineare che connota la nostra abituale percezione del divenire, tornando a un tempo differente, qualitativo. Nella visione lineare ogni istante è identico al precedente e al successivo: è la visione che Nietzsche – su cui torneremo nel corso di questa “storia notturna” – qualificò come “edipica”, in cui ogni attimo commette parricidio, uccidendo il precedente. Nemmeno la visione circolare ci viene in aiuto. Come ha dimostrato nei suoi studi Giorgio Locchi, spesso intendiamo il tempo circolare nei termini di una linea curva, altrettanto necessitata e necessitante. Sarà dunque meglio parlare di “tempo sferico”, il luogo del sempre possibile, attuazione e riattuazione di Inizi e Nuovi Inizi3.

Per avvicinarci al mistero della notte più corta dell’anno dobbiamo pensare alla temporalità come a un arcipelago di tempi, alcuni fasti e altri ne-fasti. È un tempo che potrebbe essere definito “tradizionale” o “normale”, contrapposto a quello “moderno” e “post-moderno”, acosmico e quantitativo4. Solo così si schiuderà il senso del Solstizio – segnatamente, d’Inverno –, a cui sono dedicate queste brevi note.

2. La morte del Sole

Com’è stato spesso scritto, la presenza di culti e pratiche destinati ad accompagnare il sole nel suo viaggio ipogeo è diffusa ovunque vi siano culti solari, benché, come hanno messo a fuoco antropologi e storici delle religioni – Mircea Eliade in primis –, non sia affatto semplice studiarne costanti e variabili. Tra l’altro, non è per nulla casuale che l’attenzione per questo tema si sia sviluppata in particolare nei Paesi settentrionali, dove gli inverni sono più rigidi e freddi: «Il solstizio d’inverno» ha notato Eliade, «è assai più importante nell’Europa del Nord che non nel Sud mediterraneo»5.

Ma come viene letto il momento cosmico di cui stiamo parlando all’interno di una tale visione del mondo?

In un articolo pubblicato alla vigilia del Solstizio d’Inverno del 1940, Julius Evola parla di una “visione solare” dell’anno e di come, «con le sue fasi ascendenti e discendenti», questo «si presentasse nei termini di un grandioso simbolo cosmico». All’interno di una simile visione – improntata al già menzionato “tempo qualitativo” – «il solstizio d’inverno costituì una specie di punto critico». Essendo il più basso dell’eclittica, «apparve come quello in cui la “luce della vita” sembra estinguersi, tramontare, sprofondarsi nella terra desolata e gelata o nelle acque o fra le cupe selve, da cui però ecco che subito di nuovo si alza a risplendere di nuovo chiarore». A quel punto, dopo l’oscuramento solstiziale, «sorge una nuova vita, si pone un nuovo inizio, si apre un nuovo ciclo. La “luce della vita” si riaccende. Sorge o nasce dalle acque l’eroe solare. Di là dall’oscurità e dal gelo mortale vien vissuta una liberazione»6.

Da un punto di vista simbolico, il Solstizio d’Inverno si colloca nella medesima famiglia archetipica cui appartiene l’alternarsi di albe e tramonti, a cui assistiamo ogni giorno, e la più ampia fine di un ciclo. Ma il meccanismo è sempre il medesimo, e si ricollega al mistero di morte e rinascita.

Eliade, che ha visto nelle celebrazioni solstiziali una sintesi di culti agrari e funerari, nel suo Trattato di storia delle religioni scrive che, «quantunque immortale, il Sole scende ogni notte nel regno dei morti: di conseguenza, può condurre gli uomini con sé e, tramontando, farli morire». Al tempo stesso, però, guida «le anime attraverso le regioni infernali» e le riconduce «alla luce l’indomani, col giorno». Il Sole assume così un’ambivalente funzione di «psicopompo “uccisore”» e «ierofante iniziatico». A ciò si ricollega tutta una vasta serie di plessi mitografici e folklorici: in Nuova Zelanda e nell’arcipelago delle Nuove Ebridi, ad esempio, si crede che fissare il sole al crepuscolo conduca a morte certa. Nell’esperienza concreta dell’uomo tradizionale, ogni notte «il Sole trascina con sé, “aspira” le anime dei viventi e, con la stessa facilità, guida, come psicopompo, le anime dei morti attraverso la “porta del Sole”, in occidente»7.

Tutto ciò, come si diceva, accade ogni giorno, nessuno escluso. Ma nel Solstizio d’Inverno si verifica qualcosa d’imprevisto: l’attesa si prolunga indefinitamente. Sol-stitium: il sole si ferma, è immobile. Nella notte più lunga dell’anno sembra non voler più riprendere la propria corsa.

In alcune regioni, questa eventualità genera visioni apocalittiche: «La caduta o l’oscuramento del sole è uno dei segni della fine del mondo, cioè della conclusione di un ciclo cosmico». In Messico, ad esempio, si compivano offerte di prigionieri per garantire la «perennità del Sole»8; eppure, vi era la percezione che questi sacrifici non avrebbero comunque scongiurato l’oscuramento finale: prima o poi il Sole si sarebbe spento una volta per tutte, generando una catastrofe totale, inscritta nella logica stessa della storia.

3. Ritualizzazione dell’aurora

Nasce così la percezione di una nuova necessità: per scongiurare quest’apocalisse, per fare in modo che la stasi solstiziale non divenga una notte eterna, occorre ritualizzare la ripartenza del Sole. L’astro, per così dire, va spinto a sorgere di nuovo, attraverso una serie di pratiche riservate unicamente a quella fase incerta, a quella Zwischenheit esistenziale e ontologica. La nuova aurora va ritualizzata, propiziata attraverso pratiche peculiari, destinate a quella mezzanotte interminabile – e ad essa soltanto, cuore notturno dell’anno. Come ha scritto Jean Mabire in un evocativo saggio pubblicato su «Éléments» in occasione del Solstizio d’Inverno del 1976, «all’angoscia della lunga scomparsa del Sole, in questi mesi di tempesta e gelo, corrisponde un fervore ancora più smisurato nella speranza nel ritorno della luce»9.

Per il già citato Eliade questo nugolo di pratiche è legato al timore dell’esaurimento delle energie (ogni ierofania, “manifestazione del sacro”, secondo lo storico delle religioni è anche cratofania, “espressione di potenza”) che l’uomo delle società tradizionali vede esplodere innanzi a sé ogni giorno.

Nel momento in cui queste declinano, chi “s’infuria contro il morire della luce” adotta varie tecniche, radicate a livello popolare, come far precipitare ruote infuocate lungo i declivi delle montagne, legare uomini a ruote, o ancora vietare di utilizzare gli arcolai per le tessiture nelle notti solstiziali. Usanze del genere tradiscono probabilmente «una medesima funzione magica di restaurazione delle forze solari»10. Non è un caso che a dominare sia il simbolismo della ruota – il medesimo che quintessenzia Yule, la festa funeraria dei Germani celebrata appunto il Solstizio d’Inverno, il cui etimo è incerto, ma il cui senso si coagula intorno al simbolismo circolare, indicazione della continuità tra il sole morente e quello nascente, fra inverno e primavera.

4. Fuochi nella notte più lunga

Centrale nella celebrazione dei solstizi – tanto invernali quanto estivi – è la pratica di accensione di fuochi. Se l’antiquario e topografo John Brand11 insisteva sull’intima parentela tra i fuochi di San Giovanni e quelli invernali, vi sono varianti che non possono essere trascurate – in considerazione del fatto che mentre i fuochi estivi venivano accesi all’esterno, gli altri (complici anche la temperatura e le alte latitudini in cui vivevano quei popoli che, come abbiamo visto, erano più sensibili alle celebrazioni del Solstizio d’Inverno) ardevano nei caminetti delle case. Nel “classico” – benché ampiamente superato – Il ramo d’oro, James George Frazer si concentra sulle varianti: «Entrambe le feste del solstizio avevano a che fare col fuoco; ma l’opportunità di celebrare quella invernale dentro casa dava alla festa un carattere privato e domestico, in forte contrasto con il carattere pubblico e generale di quella che si teneva d’estate»12.

Ma Brand non è il solo ad essersi concentrato sulle analogie tra i due fuochi – e, di conseguenza, tra le due festività. Da un punto di vista del tutto diverso questa parentela è stata messa a fuoco in relazione al rapporto che, nel mondo cristiano, intercorre tra il Cristo e San Giovanni, associati ai due solstizi. Se n’è occupato, ad esempio, Jean-Pierre Bayard, nel suo La symbolique du feu – dove non manca, tra l’altro, di attaccare Frazer13. «Il solstizio d’inverno» nota Bayard, «segna l’epoca dell’accrescimento dei giorni; il 24 giugno, la loro diminuzione. È curioso notare come le nascite di Gesù e San Giovanni siano collocate in punti così simbolici, chiamati rispettivamente Natale d’Inverno o Natale d’Estate, oppure San Giovanni d’Estate o San Giovanni d’Inverno»14.

Ad ogni modo, sta di fatto che il Solstizio d’Inverno viene “rischiarato” da un fuoco domestico. Ma Frazer riporta anche un’altra testimonianza, relativa ai materiali impiegati nel caminetto. L’usanza consisteva nel salvare dalle fiamme un tizzone semibruciato (lo Yule-Clog), conservandolo per accendervi il fuoco l’anno successivo. «I resti del ceppo», durante le dodici mensilità, «avrebbero protetto la casa da fulmini e incendi»15, per poi finire tra le fiamme insieme a un altro ciocco, nuovo, su cui non di rado venivano incise formule augurali. A proposito di quest’usanza, Frazer suppone che la protezione da incendi e fulmini fosse legata ai materiali stessi dello Yule-Clog, vale a dire legno di quercia, associato a Thor, dio delle folgori16. È un nome che tornerà ben presto, quando ci occuperemo dell’ascia, altro simbolo solstiziale.

Sempre in questo quadro s’inscrive l’usanza di accendere candele nelle settimane precedenti il Solstizio d’Inverno – usanza poi trasmigrata nella Corona d’Avvento cristiana – per contrastare l’oscurità incipiente e «partecipare all’avvento della Luce con la luce»17. Il maggior numero di candele accese viene ovviamente raggiunto la notte del Solstizio, quando il buio si fa apicale: «Così, mentre il Sole declina, le candele si fanno sempre più numerose, prendendo il sopravvento. Durante la veglia solstiziale, simboleggiano la fine dell’inverno, annunciando il ritorno del sole»18. Sempre quella notte viene accesa la Lanterna di Yule, decorata con quattro rune di Hagal («simboli dell’anno che muore e di quello che rinasce»)19 sormontate da altrettanti cuori.

5. I vivi e i morti

La notte di cui stiamo parlando non collega solo due fasi annuali, ma anche realtà e mondi differenti, quello dei vivi e quello dei morti. Il Sole è il grande officiante, come notato da Eliade, le cui analisi abbiamo già ricordato. Ci troviamo di fronte, scrive lo storico delle religioni romeno, «a complessi rituali e miti, nei quali la morte e la rinascita si compenetrano, convertendosi in momenti distinti della stessa realtà transumana». È una grandiosa sintesi di culti funerari e culti della fertilità, «fondata sulla valorizzazione più ampia dell’esistenza umana nel cosmo»20.

È l’uomo – il celebrante, aperto alla verticalità, ancora recettivo al sacro – a consentire questa grande riunione, letteralmente convocando i morti. Tale aspetto emerge appieno nella variante solstiziale dello Yule, nella quale «i morti si raccolgono intorno ai vivi, perché viene predetta la “resurrezione dell’anno”, quindi della primavera. Le anime dei morti sono attratte da quel che “comincia”, da quel che “si crea”: un anno nuovo (e, come ogni principio, una ripetizione simbolica della creazione)». Le feste, i banchetti e le nozze – celebrate spesso quella notte – costituiscono «una nuova esplosione vitale nel torpore dell’inverno», assolvendo a una medesima funzione: convincere “sacralmente” l’astro a non interrompere il proprio cammino. I membri della comunità «si riuniscono per stimolare, con i loro eccessi biologici, le energie del sole che declina»21.

Questo aspetto si è mantenuto a livello folkloristico-popolare anche in molte celebrazioni contemporanee del solstizio. Mabire riporta l’usanza, diffusa in territorio francese, di accendere tre candele durante la veglia solstiziale, la prima (rossa) per tutti i morti della famiglia, la seconda (blu) dedicata ai vivi assenti in quel momento e l’ultima (verde), accesa dal più anziano, «nella speranza di tutti i bambini che nasceranno nella nostra comunità e perpetueranno a loro volta il ritorno del Sole»22. Le tre direzioni temporali vengono riunite ritualmente: il primo lume è rivolto al passato, a chi non c’è più, il secondo al presente, mentre il terzo irradia la propria luce su coloro che devono ancora arrivare, e saranno chiamati ad accenderne altri per illuminare nuovi inverni, per stimolare nuovi soli a sorgere ancora e ancora.

Mi piace credere che Ernst Jünger pensasse a cose del genere quando, la sera della vigilia del Natale 1968, si recò da solo con una candela al cimitero di Wilflingen, raccontando la magia di quei momenti nei suoi diari: «La notte di Natale, rispettando un’antica abitudine, ho portato una candela al cimitero. L’ho infilata nella neve, resa traslucida dalla luce. In cielo, le nubi oscuravano la luna livida. […] Quando appoggio una candela su una tomba, l’effetto è pressoché nullo, ma il messaggio è incommensurabile. La candela brilla per conto dell’universo intero, confermandone il senso»23.

6. Cancro e Capricorno

Come sottolineato in apertura, farla finita con il tempo lineare implica tornare a una concezione qualitativa della temporalità in cui vi sono condizioni che si possono verificare solo in una certa stagione, in determinati momenti, e non in altri. Questa griglia interpretativa è stata applicata ai solstizi da René Guénon, che in molti suoi saggi usciti su «Le Voil d’Isis» ed «Études Traditionnelles» ha stabilito diverse analogie tra il simbolismo calendariale e quello spaziale (la “geografia sacra”). Secondo questo insieme di corrispondenze, leggiamo in un articolo dedicato allo Zodiaco e ai punti cardinali, «il solstizio d’inverno corrisponde al nord, l’equinozio di primavera all’est, il solstizio d’estate al sud e l’equinozio d’autunno all’ovest»24. L’anno inizia col Solstizio d’Inverno (in un certo senso, “polo nord” del mondo) e, soprattutto nella tradizione hindu, che Guénon ha ampiamente studiato, si articola in una duplice fase: ascendente (nord-est-sud, uttarayana) e discendente (sud-ovest-nord, dakshinayana).

Ma queste fasi sono aperte da due porte, dette appunto “solstiziali” (chiamate in alcune tradizioni “porta degli uomini” e “porta degli dei”), corrispondenti a Cancro e Capricorno. Esse segnano, per così dire, le tappe del ciclo ascendente e discendente. Il primo, scrive Guénon, corrisponde al Dēva-Yāna (“via degli dei”), mentre il secondo al Pitri-Yāna (“via degli antenati”)25. Secondo questa scansione – che si ritrova, su scala più ridotta, nell’alternarsi mensile di luna crescente e luna calante, nonché a livello quotidiano26 –, «la “porta degli uomini” è quella che dà accesso al Pitri-Yāna, e la “porta degli dèi” è quella che dà accesso al Dēva-Yāna», la prima situata «al solstizio d’estate e la seconda al solstizio d’inverno»27.

Al di là delle innumerevoli implicazioni di questo simbolismo, ci basti ricordare che i due solstizi rappresentano le “battute d’arresto” del cammino solare (Sol-stitium, appunto), e quindi della manifestazione intera. La «porta degli uomini» (solstizio d’estate, Cancro) è «l’ingresso nella manifestazione individuale», leggiamo nel saggio guénoniano Il geroglifico del Cancro; la «porta degli dèi» (solstizio d’inverno, Capricorno) è invece «l’uscita da questa manifestazione e il passaggio agli stati superiori, poiché gli “dèi” […] rappresentano, dal punto di vista metafisico, gli stati sopra-individuali dell’essere»28.

Un ultimo aspetto trattato da Guénon riguarda la scansione di questi cammini, la cui direzione di percorrenza cambia in base al piano su cui vengono analizzati. Il tema è molto complicato, e richiederebbe lunghe digressioni. Ci basti riportare queste righe, che conducono al cuore dell’argomento di cui stiamo parlando, nonché alla parte finale di questo saggio. Ne Le porte solstiziali Guénon torna al cammino diurno del sole, parlando della specularità inversa tra le fasi solari e una serie di esercizi spirituali: «La “culminazione” del sole visibile ha luogo a mezzogiorno, e quindi quella del “sole spirituale” dovrà simbolicamente aver luogo a mezzanotte; per questo è detto che gli iniziati ai “grandi misteri” dell’antichità “contemplavano il sole a mezzanotte”»29. La notte, insomma, non rappresenta più «l’assenza o la privazione della luce, ma il suo stato principiale di non-manifestazione, il che d’altronde corrisponde al significato superiore delle tenebre o del color nero come simbolo del non-manifestato: e pure in questo senso devono essere intesi certi insegnamenti dell’esoterismo islamico, secondo cui “la notte è preferibile al giorno”»30.

Sviluppare questo aspetto ci porterebbe molto lontano. Un passo della Bhagavadgītā (II, 69) è più che sufficiente: «Ciò che è notte per tutti gli esseri, tempo di veglia è per l’uomo che ha dominio sopra di sé, e il tempo di veglia di tutti gli esseri è la notte del savio perspicace».

7. Asce solstiziali

Vorrei chiudere questa “rassegna solstiziale”, tanto parziale quanto disordinata, soffermandomi su una sua modernissima variazione, molto “libera” ma altrettanto affascinante, che ho incontrato di recente in un’opera di Aleksandr Dugin, uscita poco tempo fa in edizione francese con il titolo Les templiers du prolétariat. In uno dei saggi contenuti nell’antologia Dugin ricorda le analisi compiute da Herman Wirth nel suo monumentale Der Aufgang der Menscheit (1928) sul simbolismo solstiziale dell’ascia (labrys). Bifronte come l’effigie di Giano, «era il simbolo primordiale dell’anno, del cerchio, delle sue metà, la prima che seguiva il solstizio d’inverno, l’altra che lo precedeva». L’ascia, scrive Dugin, incarna al tempo stesso «l’anno nuovo e lo strumento con cui l’anno vecchio è distrutto. È simultaneamente uno strumento che taglia, strazia il tempo, recide il cordone ombelicale nel punto magico del solstizio d’inverno, quando sopraggiunge il grande mistero della morte e della resurrezione del Sole»31.

Abbiamo già accennato alla parentela il solstizio e Thor in relazione al legno della quercia, usato per accendere il fuoco la notte più corta dell’anno. La stessa parentela coinvolge il simbolismo dell’ascia. Il dio norreno del fulmine è possessore del Mjöllnir, il celebre martello, i cui due lati simboleggiano il ciclo che si chiude e quello che si apre32; con quest’arma Thor fracassa la testa di Jörmungandr, “il demone potente”, la “serpe di Miðgarðr” (Miðgarðsormr) che giace sul fondo ribollente dell’oceano. Mostruosa progenie di Loki (insieme a Fenrir ed Hel), l’estensione titanica del suo corpo circonda tutti i continenti. Al Ragnarǫk, il “crepuscolo degli dèi”, Thor usa il suo martello per distruggere il serpente (il cui sommovimento sub-oceanico genera inondazioni, mentre salpa la terribile nave Naglfar)33. È molto interessante la lettura di questo complesso mitografico proposta da Dugin, nei termini di un «mito del solstizio associato al momento dell’anno nuovo. Il serpente è l’inverno, le acque fredde e profonde dell’anno sacrale, verso cui scende la stella polare. Thor, che è al tempo stesso il Sole e lo spirito del Sole, trionfa sul freddo e libera la luce»34.

Ma il seguito del saggio è ancora più illuminante, rivelando una lunga continuità mitografica, analizzando cioè quanto questo mito abbia attraversato i secoli, assumendo di volta in volta nuove forme e declinazioni, in base allo Zeitgeist.

Fino a raggiungere la San Pietroburgo di Fëdor Dostoevskij, incarnandosi nella figura di Raskòl’nikov, protagonista del celeberrimo Delitto e castigo. Quando lo studente decapita la vecchia usuraia che lo affama, la sua azione riprende «l’antico tema mitologico, il paradigma segreto della successione simbolica, il rituale primordiale praticato per millenni dai nostri antenati. Non si tratta di un mero anacronismo, né di frammenti slegati dell’inconscio collettivo. In realtà, è un’immagine escatologica ben più importante, quella del senso e dei segni della fine dei tempi, del momento apocalittico sacrale, quando il tempo s’infrange contro l’eternità, quando arde il fuoco del Giudizio finale»35.

Un solstizio cosmico, insomma, descritto con toni che a loro volta ne evocano un altro, opera di un autore del tutto complementare a Dostoevskij, uno dei profeti del XX secolo – anzi, del XXI. In Così parlò Zarathustra, precisamente nel capitolo Della visione e dell’enigma, a emergere è uno scenario del tutto solstiziale. «Nel silenzio profondo della mezzanotte»36 Zarathustra vaga in una landa desolata, un lunare paesaggio roccioso, finché nota a terra un giovane pastore che si contorce ossessivamente. Gli basta un’occhiata per vedere pendere dalla sua bocca un greve serpente nero. Che si sia addormentato e il serpente gli sia entrato in gola? Zarathustra prova a estrarre il serpente, liberando il malcapitato, ma invano. La serpe si è incistata in lui.

Occorre agire altrimenti: «Mordilo! Mordilo!» lo incita. Il pastore, tra le convulsioni, obbedisce: «Diede un morso, come il mio grido gli intimava di fare; e diede un buon morso! Sputò lontano la testa staccata del serpente: e balzò in piedi». A quel punto subisce una mutazione radicale: «Non più pastore, non più uomo», innanzi a Zarathustra si erge «un essere trasformato, circonfuso di luce, che ride37. È il vincitore del Solstizio, del buio perenne, del nichilismo e dell’azzeramento di tutti i valori, di Dio e del Nulla contemporaneamente. Non se n’è andato docile in quella dolce notte, si è infuriato contro il morire della luce, opponendo alla Mezzanotte un bagliore diverso, terrestre, facendo risorgere il Sole in illo pectore38.

Tornando a San Pietroburgo, nella lettura duginiana è l’ascia che decapita la vecchia usuraia a costituire il termine medio della narrazione, itineriarium mentis in nihil e al tempo stesso riattivazione di antichi archetipi: «Raskòl’nikov taglia la testa della vecchia strega capitalista. Lo stesso nome di Raskòl’nikov (Raskòl significa, letteralmente, “lacerazione”) indica l’ascia e l’azione che essa compie. Raskòl’nikov porta a compimento il rituale dell’anno nuovo, il mistero del Giudizio finale, la celebrazione della resurrezione del Sole»39. Il nuovo serpente è il capitalismo, giunto da Ovest, dove il Sole va a morire, mentre l’ascia di Raskòl’nikov è stata forgiata in Oriente. E, come il dio norreno con il suo martello, spicca la testa dell’usuraia, figlia di un altro titanico ofide, il Leviatano, il mostro marino in cui Carl Schmitt ha visto incarnati i valori della Civiltà del mare atlantista, la maledizione del “secolo americano”, i valori contrapposti a quelli della Terra, incarnati da Behemoth.

«Bisogna ricreare interamente il senso profondo del solstizio» scrisse Jean Mabire, «facendo della notte più lunga un evento unico e sacrale»40. Per farlo, è bene partire sempre dagli stessi due gesti: accendere un fuoco e tagliare la testa della serpe – delle serpi, vecchie e nuove. Che possano essere i segni del nostro solstizio, celebrato in un momento di oscuramento totale. Che possa essere questo il nostro modo di salutare, nel sole che declina, la promessa della nuova alba che sorgerà sui resti lacerati della precedente. Augurandoci che di quest’ultima non rimanga che un orrido ricordo, perso nei silenzi siderali.

Note:

1 Eccone la versione originale, decisamente più evocativa: «Do not go gentle into that good night, / Old age should burn and rave at close of day; / Rage, rage against the dying of the light».

2 Cfr. Wendy Doniger, In memoriam: Ioan P. Culianu, in «Criterion», vol. 30, n. 3, autunno 1991. La traduzione di questo ricordo, insieme a una gran mole di materiali dedicati al celebre allievo di Mircea Eliade, uscirà prossimamente per Edizioni Bietti.

3 Cfr. Giorgio Locchi, Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista, introduzione di Paolo Isotta, Akropolis, Napoli 1982.

4 Differenza sviluppata, tra gli altri, da Ernst Jünger nel suo straordinario Il libro dell’orologio a polvere, tr. di Alvise La Rocca e Giancarlo Russo, Adelphi, Milano 1994.

5 Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, a cura di Pietro Angelini, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 324.

6 Julius Evola, Il natale solare, in Simboli della tradizione occidentale, a cura di Renato del Ponte, Arktos, Carmagnola 1976, p. 108.

7 Cfr. Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 122.

8 Cfr. ivi, p. 135.

9 Jean Mabire, Pour célébrer le solstice d’hiver, in «Éléments», 21 dicembre 1976. Salvo dove diversamente indicato, le traduzioni sono nostre. Sul tema, dell’autore di veda anche il libro, scritto con Pierre Vial, Les solstices: histoire et actualité, Flambeau, Chatillon-sur-Chalaronne 1991.

10 Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 135.

11 I suoi studi, in particolare Observations on Popular Antiquities: Including the Whole of Mr. Bourne’s Antiquitates Vulgares (1777), hanno contribuito come pochi altri a mappare e ricostruire il folklore inglese.

12 James George Frazer, Il ramo d’oro, tr. di Nicoletta Rosati, Bizzotto, Roma 2014, p. 703.

13 Cfr. Jean-Pierre Bayard, La symbolique du feu, Payot, Paris 1973, pp. 171-175.

14 Ivi, p. 185. Sul tema cfr. anche René Guénon, A proposito dei due San Giovanni, ora in Simboli della scienza sacra, tr. di Francesco Zambon, Adelphi, Milano 2006.

15 James George Frazer, Il ramo d’oro, cit., p. 703.

16 Cfr. ivi, pp. 195-196.

17 Maurizio Ponticello, I pilastri dell’anno: il significato occulto del calendario, Arkeios, Roma 2013, p. 162.[18Cfr. Jean Mabire, Pour célébrer le solstice d’hiver, cit.[19] Ibidem.

20 Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 324.

21 Ibidem.

22 Jean Mabire, Pour célébrer le solstice d’hiver, cit.

23 Ernst Jünger, Alle frontiere della storia (1968-1979), tr. di Andrea Scarabelli, «ilGiornale.it», 15 aprile 2020.

24 René Guénon, Lo Zodiaco e i punti cardinali, ora in Simboli della scienza sacra, cit., p. 95.

25 Cfr. anche Marco Baistrocchi, Les portes du ciel: devayâna et pitriyâna, Arché, Milano-Parigi 1979.

26 Cfr. René Guénon, Le Porte solstiziali, ora in Simboli della scienza sacra, cit., p. 204: «Nella giornata, la metà ascendente è da mezzanotte a mezzogiorno, e la metà discendente da mezzogiorno a mezzanotte; la mezzanotte corrisponde all’inverno e al nord, il mezzogiorno all’estate e al sud; il mattino corrisponde alla primavera e all’est (lato della nascita del sole), la sera all’autunno e all’ovest (lato del tramonto del sole). Così, le fasi del giorno, come quelle del mese, ma in scala ancora più ridotta, riproducono analogicamente quelle dell’anno; lo stesso vale, più in generale, per qualunque ciclo, che, indipendentemente dalla sua estensione, si divide sempre naturalmente secondo la stessa legge quaternaria».

27 Ivi, p. 203.

28 René Guénon, Il geroglifico del Cancro, ora in Simboli della scienza sacra, cit., p. 123. Sul tema, dell’autore cfr. anche Gli stati molteplici dell’essere, tr. di Giampiero Dagradi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965.

29 Su questa pratica cfr. soprattutto Glosse all’Opus Magicum, in Ur, 1927, Tilopa, Roma 1980, pp. 54-55; si veda anche la ricca analisi compiuta da Stefano Arcella in Aa. Vv., La dimensione magica del Gruppo di Ur, Rebis, Viareggio 2020.

30 René Guénon, Le porte solstiziali, cit., p. 206.

31 Aleksandr Dugin, La hache est mon nom (Dostoevskij et la métaphysique de Saint-Pétersbourg), in Les templiers du prolétariat, Ars Magna, s. l. 2020, pp. 430-431.

32 Cfr. Julius Evola, L’ascia, in Simboli della tradizione occidentale, cit.

33 Cfr. Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici, Longanesi, Milano 1991.

34 Aleksandr Dugin, La hache est mon nom, cit., p. 431.

35 Ivi, pp. 432-433.

36 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. di Sosio Giametta, Rizzoli, Milano 1997, p. 182.

37 Ivi, pp. 183-184.

38 Per una declinazione filosofica di questi principi cfr. Aleksandr Dugin, Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale, a cura di Francesco Marotta, Andrea Scarabelli e Luca Siniscalco, Aga, Milano 2019; Id., Il Sole di mezzanotte. Aurora del Soggetto Radicale, a cura di Francesco Marotta, Andrea Scarabelli e Luca Siniscalco, Aga, Milano 2019.

39 Aleksandr Dugin, La hache est mon nom, cit., pp. 434.

40 Jean Mabire, Pour célébrer le solstice d’hiver, cit.

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