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Federico II di Svevia: la prospettiva metastorica d’Europa

La ricorrenza del 26 dicembre – 826° anniversario della nascita di Federico II di Hohenstaufen, Imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia – costituisce un’occasione per riflettere su alcuni degli aspetti più propriamente metastorici, oltre che metapolitici, del nostro discorso, a partire peraltro dal simbolo che abbiamo scelto per rappresentare il GRECE Italia.

Infatti – a differenza del simbolo originale dello storico centro studi francese, il nodo bretone, recuperato poi in Italia da alcune esperienze politiche – la nostra sezione italiana ha voluto optare per la pianta stilizzata del castello fridericiano di Castel del Monte, sottolineando dunque – in piena coerenza con la valorizzazione delle differenze etnoculturali propugnata dal GRECE – le nostre specificità nazionali. Mentre il primo rimanda al profondo substrato celtico che permea buona parte dell’Europa centro-occidentale, dall’Atlantico al Danubio e dalle Orcadi al Po, retaggio di un’epoca precedente ai processi di romanizzazione e di cristianizzazione, il secondo – che pure conserva una forma radiale di origine solare – ci proietta in un contesto spazio-temporale differente, ancorché appartenente a pieno titolo alla civiltà europea.

Castel del Monte, come centinaia di altri castelli edificati o ristrutturati, fu eretto da Federico II per rafforzare la sua autorità nel Regno di Sicilia, su un colle presso Andria, nel cuore della Terra di Puglia. La sua ragione politica rispondeva dunque alla ricomposizione dell’autorità centrale rispetto alla frammentazione feudale. Il progetto di monarchia universale portato avanti dagli Staufen, prefigurava – è vero – da un lato l’avvento dello Stato moderno, sia pure in una prospettiva che travalicava i confini nazionali, ma d’altra parte costituiva una restaurazione dell’ordine imperiale romano, disgregatosi in Occidente otto secoli prima e, all’epoca, crollato anche in Oriente sotto i colpi dei Crociati e dei Turchi. Una rete di castelli fedeli al sovrano inibiva ogni azione centrifuga da parte dei baroni e dei Comuni. I grandi spazi del Nord, oscure foreste, mari in tempesta, brughiere gelide, selve nebbiose, non sono per noi che la minaccia di un caos informe, se non c’è la pietra di un vallum, di un castrum, di una via, di un templum, a imporre il cosmo della civitas.

Inoltre, la sua complessa architettura rivela, citando la scheda UNESCO, «una fusione armoniosa di elementi culturali provenienti dall’Europa settentrionale, dal mondo islamico e dall’antichità classica», affermando dunque una vera e propria sintesi non solo delle culture presenti all’epoca nel Regno di Sicilia (greca, latina, araba ed ebraica, normanna e sveva), ma delle radici che hanno concorso a dar vita all’Europa come Kultur – così come era stata spiegata da Spengler, denotando una vera e propria cesura rispetto al mondo classico mediterraneo – cioè l’unione tra i resti della civiltà classica greco-romana, le popolazioni “barbariche” di ceppo indoeuropeo e la religione cristiana, di provenienza mediorientale. Se, nel pensiero degli intellettuali d’Oltralpe, il Mediterraneo è spesso apparso come una barriera – e le stesse culture greca e romana sono state talvolta rilette anacronisticamente come opera di élites “ariane” –, per noi Italiani, discendenti primogeniti di Roma, la relazione con le sponde orientali e meridionali del Mare Nostrum non può che essere differente.

Il nostro piccolo subcontinente, penisola di una penisola dell’Eurasia, cinto dalle Alpi, ha visto affluire e fondersi ceppi settentrionali (Latini, Galli, Achei, Goti, Longobardi) e meridionali (Fenici, Pelasgi, Tirreni, Bizantini, Arabi). Non siamo un corpo estraneo all’Europa, come sostiene erroneamente qualcuno, fuorviato dall’odierna polemica economica, ma il cuore dell’Impero, dove Carlo Magno e Carlo V, Ottone e il Barbarossa, imperatori romano-germanici, furono incoronati; dove San Benedetto iniziò a diffondere per l’Europa la Croce di Cristo e i manoscritti di Virgilio; dove affluivano i passi dei pellegrini e le carovane dei mercanti, varcando i passi alpini. Al tempo stesso, però, siamo un molo gettato sul Mare di Mezzo, verso l’Africa e verso il Levante, dove per millenni abbiamo trattato e dialogato e con l’oro e col ferro. Non c’era porto senza un emporio di una delle nostre Repubbliche, e le flotte delle nostre città contendevano i mari a quelle di regni e imperi.

Infine, sul piano simbolico, Castel del Monte, vera e propria corona imperiale di pietra, sempre inondata dal sole, è sotto il segno dell’otto. Questo numero naturale segue il sette e rappresenta dunque ciò che va oltre la perfezione terrena: il cielo delle stelle fisse e incorruttibili, oltre i sette pianeti mobili, ma soprattutto, nella simbologia cristiana, l’Ottavo Giorno, quello della Resurrezione, la Domenica senza tramonto. Non è un caso, naturalmente, che i battisteri, fin dall’epoca paleocristiana, abbiano otto lati. Tuttavia, i riferimenti principi, in questo caso, sono due: la Cappella Palatina di Acquisgrana, eretta da Carlo Magno, e divenuta poi suo luogo sepolcrale, nonché sede dell’incoronazione dei Re di Germania; la Cupola della Roccia di Gerusalemme, costruita sulla pietra di fondazione – dove il mondo fu creato, dove Adamo fu plasmato, dove Abramo legò Isacco per sacrificarlo, dove Salomone pose l’Arca dell’Alleanza, dove Maometto avrebbe iniziato il suo viaggio ultraterreno, dove sarà suonata la tromba del Giudizio finale – e brevemente consacrata chiesa latina dai Templari. Castel del Monte, geograficamente, si trova all’incirca a metà strada tra le due città (anche se più vicina alla prima), non distante dal santuario micaelico di Monte Sant’Angelo e dal porto di Bari, lungo le vie percorse dai pellegrini. Federico stesso, Imperatore Crociato – e cosa furono le Crociate se non pellegrinaggi armati, giusta la lezione di Cardini? – fu incoronato ad Acquisgrana, a Roma e a Gerusalemme.

Premesso questo, la figura del grande sovrano italo-germanico non è d’ispirazione solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa. Il suo regno corrisponde all’epoca di maggior potere del Sacro Romano Impero, al culmine del periodo classico del Medioevo, tra la Rinascita dell’Anno Mille e la Crisi del Trecento. A parte il Regno di Sicilia, che comprendeva l’intero Mezzogiorno d’Italia, i confini imperiali si estendevano dall’Ems al Tevere, dalla Vistola al Rodano, arrivando ad includere la Provenza e la Slesia, la Toscana e la Frisia. Gli Stati crociati di Gerusalemme e dell’Ordine Teutonico giuravano fedeltà all’Imperatore, estendendone a Oriente i domini. Anche gli altri Re riconoscevano almeno formalmente la sua superiorità di rango. Federico, chiamato alla nascita dalla madre Costantino, trasse dalle rovine di Costantinopoli la nozione dell’Imperatore quale Vicario di Cristo, e quindi alla pari del Papa, che avrebbe animato tesi e pretese della fazione ghibellina per i secoli a venire. Fu questo Primo (e più autentico) Reich l’embrione di un’unità europea veramente sovranazionale.

Questo rimanda a un’ulteriore riflessione, quella sul rapporto tra Europa e Occidente, e soprattutto su quale ruolo debba la prima avere nel mondo globalizzato, in un contesto in cui l’unipolarismo occidentale a guida statunitense sta cedendo terreno a vantaggio di un assetto più marcatamente multipolare, determinato dall’ascesa delle potenze emergenti, Cina in primis. Le reazioni di tipo apocalittico, che levano alti lai verso la “rivoluzione mondiale dei popoli di colore” o la “fine dell’uomo bianco”, oltre a costituire una forma di ressentiment in senso nietzscheano, è fondamentalmente anacronistico. Da una prospettiva radicalmente anti-liberale, quale la nostra, la Belle Époque in cui l’uomo bianco maschio cristiano occidentale dominava il globo, non è un’età dell’oro da rimpiangere, ma un’epoca in cui, dietro il velo della supremazia e del progresso tecnico si preparava quella guerra fratricida, che nell’arco di un trentennio (1914-1945), avrebbe ridotto il nostro continente a satellite e marca di frontiera tra le due superpotenze. Intanto, lo sfruttamento imperialista in Africa e in Asia poneva le basi per le grandi diseguaglianze tra Nord e Sud del Mondo, e per gli attuali insostenibili flussi migratori, mentre in Europa, la società borghese e industriale iniziava a massificare e fagocitare le tradizioni locali, a partire dalle lingue “minoritarie”.

Se guardiamo però a cicli storici più ampi, ci rendiamo conto di come l’eccezione occidentalista non abbia occupato che uno spazio di qualche secolo nella storia universale. La Grande Divergenza si sta chiudendo, con le grandi civiltà orientali pronte a recuperare il ruolo di prim’ordine sullo scenario globale, che già avevano prima del XIX secolo. L’Europa che dobbiamo costruire e a cui dobbiamo mirare è dunque politicamente fridericiana, non vittoriana: agli opposti sciovinismi nazionali, contrapponiamo la tendenza all’unità nella diversità, a livello continentale; alla ricerca dell’egemonia globale e alla competizione inter-imperialista, contrapponiamo l’equilibrio e la cooperazione multipolare tra grandi spazi. Inoltre, giova oggigiorno ricordare che il regno di Federico II coincise con l’affermarsi della Pax Mongolica, quando l’Oriente fu unificato sotto lo scettro di ferro di Genghis Khan e dei suoi epigoni, e nuove vie commerciali furono tenute aperte dall’Adriatico al Mar Giallo – un’epoca che anticipa l’odierno Sogno Cinese di una rete di rotte commerciali terrestri e marittime gettate a collegare più strettamente le due sponde dell’Eurasia.

Ci volgiamo indietro, però, solo per guardare più lontano verso l’immagine di un’Europa, memore dei limiti imposti dalla sapienza pagana e dalla dottrina cristiana, che dialoga da forte coi forti e accoglie i deboli con giustizia, senza sudditanza né arroganza, che sa rispondere con serenità apollinea alle sfide dell’Estremo Oriente come dell’Estremo Occidente, che alle sirene faustiane, oppone la saggezza epicurea dello Stupor Mundi: «Insensati come siamo, noi vogliamo conquistare tutto, come se avessimo il tempo di possedere tutto.»

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