«Tanti hanno biasimato Eliade per non essere rimasto in India. Dovremmo esserne contenti, al contrario, perché ha accettato di compromettersi anche lui, qui con noi, e vedere in questo una rinuncia più importante di quella contemplativa. Accettare la storia mi sembra l’eroismo più grande.»
(E. Cioran, Mircea Eliade e le sue delusioni, 1936)
Mircea Eliade (1907-1986) è noto, ormai anche al grande pubblico, come uno degli storici delle religioni più importanti del Novecento. Per alcuni, il più importante. Questa titolarità, conseguita in virtù della ricchezza e profondità di una sterminata ricerca e produzione scientifica, dev’essere tuttavia congiunta, per farci un’idea organica dell’autore, alla sua peculiare e strabordante attività culturale “non accademica”. È peraltro proprio all’interno di questa porzione del suo opus, che consta di romanzi, racconti, pièce teatrali, articoli di giornale, pagine diaristiche e lettere (si pensi allo splendido epistolario con Emil Cioran), che Eliade esprime tutti i “non detti” – per citare un’efficace espressione di Marcello de Martino – della sua speculazione. La “sfera diurna” del suo ingegno viene così affiancata da una “sfera notturna”. Al cuore di questa prosa, intima e metafisica al contempo, Eliade si rivela come un intellettuale curioso e passionale, un indagatore sismografico, in senso jüngeriano – e non è un caso che col Contemplatore solitario il nostro diresse per una decina d’anni la portentosa rivista «Antaios» –, un rapsodo delle interferenze fra visibile e invisibile.
Nel novero di questa tipologia di scritti rientrano anche le interviste concesse dall’autore a diversi grandi intellettuali del suo tempo. Assai celebre quella con lo scrittore francese Claude-Henri Rocquet, assurta al rango di libro, con il titolo La prova del labirinto (1978). Significativi pure i dialoghi contenuti in Miti delle origini e ritmi cosmici. Conversazioni (1973-1984), testo recentemente edito per i tipi di Bietti a cura di Andrea Scarabelli e Horia Corneliu Cicortaş, dalla cui pubblicazione il presente intervento trae spunto. Il volumetto raccoglie quattro interviste a Eliade, realizzate tra gli anni Settanta e Ottanta da Alain de Benoist, Jean Varenne, Alfredo Cattabiani e Fausto Gianfranceschi. Con piglio fluido e divulgativo, Eliade affronta alcuni snodi fondamentali delle sue dottrine: la metodologia ermeneutica morfologica e comparatistica applicata alla storia delle religioni, la dialettica ierofanica, l’essenza ontologica e cosmogonica del mito, la fuoriuscita dalla storia, la demitizzazione propria dell’età della secolarizzazione, i “nuovi miti” moderni, il “camuffamento del sacro nel profano”.
Ne emerge anche uno su cui raramente la critica eliadiana si è soffermata, ma su cui pure Eliade ha sviluppato intuizioni geniali – ancorché del tutto asistematiche: la ricerca e problematizzazione delle radici e prospettive metafisiche della tradizione europea. Già nel Trattato di storia delle religioni (1948) Eliade, nel suo edificio dall’architettura universale, aveva attribuito particolare rilevanza allo studio comparatistico del folklore europeo. Aspetto d’altronde sempre presente nella speculazione eliadiana, e pionieristicamente presentato nel saggio Folklorul ca instrument de cunoaștere, uscito su «Revista Fundațiilor Regale» (4, 1937; ed. it.: Il folklore come strumento di conoscenza, in L’isola di Euthanasius). Fra i riti più affascinanti citati nel Trattato vi sono sicuramente quelli tipici delle società contadine, che si manifestano tanto in primavera quanto nel periodo del raccolto delle messi. In queste occasioni, ciclicamente «la “potenza”, o lo “spirito”, è rappresentata direttamente da un albero, o da un covone di spighe, e da una coppia umana, e le due cerimonie hanno un’influenza fertilizzatrice sulla vegetazione, il bestiame e le donne. È sempre la stessa necessità, sentita dall’uomo arcaico, di fare le cose “in comune”, “di essere insieme”. La coppia che personifica la potenza o il genio della vegetazione è essa stessa un centro di energia, capace di accrescere le forze dell’agente che rappresenta. La forza magica della vegetazione è aumentata dal semplice fatto di essere rappresentata da una giovane coppia, ricca in massimo grado di possibilità – o anche di realizzazioni – erotiche. Questa coppia, “lo sposo” e “la sposa”, sono soltanto un simulacro allegorico di quel che una volta realmente avveniva: la ripetizione del gesto primordiale, la ierogamia».
Nell’intervista a Jean Varenne del 1973, Eliade propone un’intuizione fondamentale: l’Europa contemporanea, nonostante l’ineluttabile incedere della modernità culturale e socio-politica, paradigmaticamente associata alla secolarizzazione o, tuttalpiù, alle forme di “seconda religiosità” (l’espressione è di Oswald Spengler), continuerebbe a conservare tracce significative del suo passato arcaico, quello in cui la dimensione sovrastorica dell’Origine – il tempo dell’Eterno, l’illud tempus – si è incarnata nel sostrato germinale della storia. In particolare, precisa Eliade in un excursus di carattere tipologico sull’identità europea, la cultura neolitica «è ancora viva e vegeta in Europa orientale, all’interno di ciò che siamo soliti chiamare folklore». Tale orizzonte di civiltà si palesa in particolare, stando allo storico delle religioni, nei già citati “culti agrari”, che presentano una fenomenologia affine nell’intero continente europeo. Tali paradigmi cultuali testimoniano «sempre la stessa struttura: è quella che io chiamo religione (o religiosità) cosmica, vale a dire che il sacro vi si manifesta tramite il sentore umano dei ritmi cosmici».
Vi è, insomma, una unità spirituale che si palesa in un ricco e molteplice corpus mitico-simbolico, cultuale e rituale, che ha origine agli albori stessi della storia. In quel punto in cui l’Ineffabile informa la realtà, secondo un vettore emanazionista, calandosi nel cuore dell’immanenza e conferendole struttura fenomenica. I paradigmi religiosi istituzionalizzati, così come, su piani diversi, le vie esoteriche e iniziatiche, mirerebbero segnatamente a ricucire la connessione sottile e interiore fra l’individuo, coi suoi limiti biologici ed egoici, con quell’Origine extratemporale verso cui mai le civiltà, per quanto moderne o postmoderne, smettono nostalgicamente di tendere. Il mito cosmogonico assume allora in Europa una specifica declinazione archetipica in direzione di una religiosità cosmica che è la sua forma specifica di sacralità. Eliade, accennando alla nozione di religiosità cosmica, sembra riferirsi a un tempo davvero antico, che prescinde, apparentemente, anche dal dibattito storico sulle relazioni fra l’invasione dei popoli indoeuropei e le precedenti civiltà (di assetto matrilineare e gilanico, secondo gli studi della Gimbutas), per richiamare una dimensione ancor più arcaica, in cui a irradiarsi è l’eterno al di fuori del tempo.
Certo è che la cultura secolarizzata dell’Occidente mira ormai da diversi secoli a sradicare tale tradizione. Per dirla con Drieu la Rochelle, «l’Europa si è ridotta a portare le sue chiese senza Dio, i suoi palazzi senza re come gioielli scintillanti sul seno sfatto». Eppure nulla vieta di supporre, a rigor di logica e a fronte della potenza mitopoietica della storia, che l’avvenire possa rivelare nuove e più limpide manifestazioni dell’arcaica ed eterna unità spirituale. Citando una conversazione con Teilhard de Chardin, Eliade nota: «Se il dogma è eterno, le espressioni dogmatiche sono transeunti». Proprio in questo passaggio si palesa l’ottimismo cosmico e metafisico eliadiano, che s’incastona nella convinzione che le forme del sacro sono destinate a ritornare nell’avvenire, in quel lato luminoso del postmoderno che sinora è rimasto occluso nelle tenebre del suo doppio negativo. La «fuga degli dèi» e la «povertà del mondo» (Friedrich Hölderlin) proprie dell’età della demitizzazione sono fenomeni transitori, cui l’Occidente dovrà ovviare guardando tanto a Oriente – e qui Eliade riecheggia Simone Weil: «Forse l’Europa non ha altro mezzo per evitare di essere decomposta dall’influenza americana se non un contatto nuovo, vero, profondo, con l’Oriente» (Una costituente per l’Europa) – quanto, e soprattutto aggiungiamo noi, dentro di sé, nelle proprie profondità e nei propri abissi, in quella rimozione della verticalità antropologica (dell’homo religiosus direbbe Eliade, ripreso in seguito da Julien Ries) che è il lascito più nefasto del riduzionismo moderno. Per conquistare l’avvenire è necessario un recupero del passato, nella sua dimensione metafisico-simbolica più che in quella cronologica. Un passato, per così dire, che è sempre contemporaneo a tutte le epoche oppure non è affatto: «Ci si libera dall’opera del Tempo – spiega Eliade in Mito e realtà – con il ricordo, con l’anâmnèsis. L’essenziale è ricordarsi tutti gli avvenimenti». La conoscenza non passa dall’invenzione, insomma, quanto piuttosto dalla rammemorazione.
«Io credo – dichiara in questa prospettiva fiduciosa Eliade a Fausto Gianfranceschi, nel 1983 – che anche in Occidente ci si avvii a riapprendere il linguaggio simbolico che arricchisce il senso del reale».
Su un piano diacronico, possiamo notare come la religiosità cosmica arcaica si sia metamorficamente integrata nei politeismi antichi, per poi essere respinta dal monoteismo giudaico e infine riassorbita nel cristianesimo: sul piano storico, ricorda Eliade in un’intervista rilasciata nel 1979 ad Alain de Benoist, sempre contenuta nel volumetto di cui stiamo parlando, «si trattava di omologare universi religiosi diversi, al fine di uniformare culturalmente l’ecumene. Così, ad esempio, i numerosi eroi e dèi uccisori di draghi della tradizione indoeuropea sono stati identificati con San Giorgio. Analogamente, in Grecia, dopo l’incendio del santuario di Eleusi, nel 396, evento che simboleggia la fine del paganesimo, un san Demetrio, sacro patrono dell’agricoltura, pende in modo del tutto naturale il posto della dea Demetra…». È il cristianesimo cosmico di Origene, Dionigi, San Bonaventura e Nicolò Cusano, in cui il dominio della storia e quello della metastoria risultano sempre intrecciati.
Non si può capire l’identità europea, nelle sue diverse e talora antagoniste manifestazioni storiche e religiose, senza considerare la sua esperienza del sacro, che è «l’esperienza di una realtà assoluta, trascendente, […] attraverso la quale il mondo assume un senso organico», nella forma della religiosità cosmica. Si tratta di una sensibilità, quella eliadiana, verso una sophia prisca, di matrice universale, quasi in senso perennialista, ma declinata in un senso peculiarmente europeo. Essa ha incontrato una delle sue più folgoranti manifestazioni, nella storia recente, all’interno del Rinascimento italiano e della sua riscoperta, sulla scorta dell’ermetismo e del neoplatonismo, dell’Oriente simbolico da sempre riposto nel cuore dell’Eurasia. E l’Europa di cui parla Eliade, in una prospettiva che ha criticamente superato qualsivoglia provincialismo e revanscismo, ha indubbiamente una dimensione eurasiatica, nel suo essere ponte e, al contempo, singolare congiunzione polare di Oriente e Occidente, orizzonte di vie alternative ma sintoniche nei riguardi del «fondamentale istinto toccato in sorte alla natura umana: uscire da sé, fondersi con un altro, fuggire la solitudine limitata, tendere verso una libertà perfetta nella libertà dell’altro» (Eliade, La biblioteca del mahārāja e Soliloqui). In una tensione destinale fra la subordinazione amara e passiva nei confronti del divino (la subordinazione alla legge, la Via della Mano Destra) e la gioia estatica che deriva dalla percezione della nostra potenza magico-demiurgica (la vittoria sulla legge, la Via della Mano Sinistra). Così, quando il giovane Eliade rivelava in una lettera all’amico Cioran, nel novembre 1935, di provare disgusto per l’Europa e di auspicare l’indipendenza della sua amata Romania da «questo continente che ha scoperto le scienze profane, la filosofia e l’uguaglianza sociale» già comprendeva che la verità tradizionale si era spenta nell’Europa moderna, eppure forse, assecondando un certo pessimismo tragico e fatalista d’impronta giovanile, non aveva ancora colto i segnavia che, nella maturità, avrebbe imparato a leggere come segni di una possibile rinascita del sacro. Peraltro, vi accenniamo qui soltanto, i più recenti studi di etnologia rivelano come l’Europa orientale (compresa, evidentemente, la Romania eliadiana) sia stata un’area centrale nella formazione del sostrato rurale, storico e simbolico del continente (Aleksandr Dugin nota in merito, nel suo recente Noomachìa, che «l’Europa orientale, comunemente ritenuta periferica e marginale dalla civiltà greco-romana e più tardi da quella occidentale, andrebbe ritenuta al contrario un polo centrale della civiltà Europea. È nell’Europa orientale che l’evento chiave nella storia ontologica e semantica europea – l’incontro tra i due orizzonti esistenziali paleo-europeo [ginecocratico] e indoeuropeo – ha avuto luogo»).
In ogni caso, è proprio nella complessa relazione fra Uno e molteplice, univocità e pluralità, che si costruisce l’identità europea, nella relazione dialettica fra due livelli di complessità che il filosofo Massimo Cacciari ha ben delineato, nel suo Geo-filosofia dell’Europa, con la seguente immagine: «Da un lato, essa [l’Europa] non può concepirsi senza l’idea di una comunanza originaria di tutte le cose. Se originario fosse il differire, come potrebbe l’ordine armonico determinarsi se non come meramente contingente, semplice caso? Dall’altro, essa è il prodotto di una contesa tra i molti, da cui nasce questa connessione, questa visibile armonia, costituita da diversi elementi. Questa visibile armonia coincide con la direzione, con il senso della contesa». L’accordo, insomma, nasce dal contrasto. L’armonia è, per citare ancora Cacciari, «l’anima inafferrabile, la psyché dalle vie troppo profonde, della contesa, la ‘folgore’ che ne guida tutti i movimenti». Questa è la peculiarità, la Gestalt del mito europeo, un orizzonte culturale e geografico che si definisce, anzitutto, in termini metafisici e antropologici. Lo rivela il suo mito fondante, il ratto di Europa (epifania della Madre) da parte di Zeus (il dio Padre per eccellenza): qui la ierofania solare e uranica incappa nell’archetipo femminile, in una polarità d’incontro-scontro in cui la mediazione avviene simbolicamente nella stessa figura di Zeus, che per conquistare l’affascinante Europa deve farsi toro, figura fecondatrice e creatrice (virile-solare) e al contempo tellurico-lunare.
Lungo i sentieri di un “nuovo umanesimo”, integrale, olistico, multidimensionale, Eliade ha così elaborato una raffinata e inattuale interpretazione del rapporto fra mito e realtà. Un’ermeneutica di matrice universale, le cui lenti interpretative offrono chiavi di lettura particolarmente feconde per comprendere e ripensare l’identità europea.