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Alexander Solženicyn, la luce che ci insegna a resistere

In un momento in cui i sindacalisti di estrema sinistra vogliono togliere il nome di Alexandre-Solženicyn a una scuola in Vandea, è giunto il momento di rileggere l’opera di Solženicyn (1918-2008), i suoi inviti al coraggio, le sue esortazioni alla dissidenza. Alexander Solženicyn è l’uomo che ci insegna a dire no: no alle bugie, no alla propaganda, no al declino del coraggio.

Come un personaggio biblico, Alexander Solženicyn ha guidato il suo popolo attraverso la notte storica del comunismo. Questo è stato un momento unico nella letteratura mondiale. Mai uno scrittore ha avuto una tale influenza. È l’eroe collettivo dei Gulag, il suo corifeo, come se avesse ricevuto una procura dai detenuti e dai deportati: gli zek. Grazie a lui, la loro denuncia è arrivata fino a noi. I suoi libri sono stati come un tuono. Hanno prodotto un’ondata di choc ancora più grande del rapporto di Krusciov al XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, che ne segnava la destalinizzazione.

Nato nel 1918 nel Caucaso, (Solženicyn) è stato figlio della Rivoluzione d’Ottobre. Nulla lo predisponeva a diventare il grande dissidente qual sarebbe diventato, il derisorio vaso di terracotta, matricola CH-232, ignoto autore di Una giornata di Ivan Denissovitch (1962), prima vox clamantis in deserto, come poi furono tante altre, la cui parola imbavagliata tuttavia finì per risuonare in tutti i continenti, dopo essere stata alimentata da di innumerevoli affluenti, suoi compagni di prigionia.

Il grano caduto tra le macine

Se per caso dovessimo riassumere il Novecento russo, emergerebbero due nomi come tesi e antitesi, giorno e notte: il suo (di Solženicyn) e quello di Joseph Stalin. Quello che lo ha mandato a morte e quello dalla quale è risorto. La disumanità del carnefice contestata dall’umanità della vittima. Insieme offrono quell’impareggiabile miscuglio di anarchia e autocrazia, di fede e nichilismo, di bene e di male, di paganesimo e cristianesimo, di maledizione e messianismo, che, dal battesimo di Vladimir, inonda di luce questo Paese-continente che rappresenta un sesto delle terre emerse.

Tutto è sovradimensionato in Solženicyn. I libri, la statura, il pubblico, tutto, tranne il rifiuto che rivolge al Cremlino. Perché la sua dissidenza è comune a tutti gli uomini. Si trova depositata in tutti. Come un seme. Spetta a ciascuno coltivarlo. È «il grano caduto tra le macine», per usare il titolo della seconda parte delle sue memorie (1998). Per quanto sepolto possa essere, germoglierà.

Storico e profeta, Solženicyn tracciò il suo solco come il contadino il suo campo e il pellegrino il suo cammino. È l’uomo della retta via (ortodossia, etimologicamente significa «la retta via»). «Per tutta la mia vita ho corso come in una maratona», ha confidato una volta allo scrittore e diplomatico Daniel Rondeau. Un magnifico lottatore, alternativamente monaco e soldato, atleta e muzhik, titano e formica, imponente come Tolstoj, grande come la Russia, antico come la protesta di Antigone, e la cui grandezza è ineguagliabile, eppure umana, nient’altro che umana. Di fronte a un genocidio, ha affermato la banalità del bene, tanto è vero che la vera resistenza è ostinata e modesta.

Il Gulag in diretta

Ha descritto il Gulag in così tanti libri che è impossibile citarli tutti. È L’Arcipelago Gulag (1973) a dominare questa massa critica. Milleseicento pagine, di cui tuttavia il suo autore disse che era solo una feritoia. «Sono riuscito solo ad aprire una feritoia attraverso la quale guardare l’arcipelago, non a descrivere tutto il panorama che rappresenta l’intera prigione. L’Arcipelago resterà come il monumento dedicato ai morti, la Croce piantata sulla Kolyma, di cui fu narratore e scriba. Ma questo monumento è molto più di un mausoleo eretto in mezzo alle rovine. È inferno e paradiso. Come con Dante, attraversiamo uno ad uno i cerchi dell’universo dei campi di concentramento, il mondo delle catacombe, per giungere finalmente alla luce, perché essa nasce sempre dalle tenebre. Questo è ciò che distingue Arcipelago dalle testimonianze sull’orrore nudo dei campi, da cui si esce come spezzati. Qui, sopravviviamo alla morte. La storia russa può essere una via crucis, di pena e dolore, una scalata al Golgota, ma è un’ascesa verso la gloria, seguita da una risurrezione. Un’ordalia (processo davanti a Dio), come scrive Georges Nivat.

Da qui, i due compiti che Solženicyn si era assegnato dal suo ritiro nel Vermont, Stati Uniti, dopo la sua espulsione dall’URSS nel 1974, e che erano collegati tra loro come causa ed effetto. In primo luogo, testimoniare questo genocidio. Dopodiché, spiegarlo. Questo sarà l’argomento della seconda parte dell’opera, La ruota rossa. Seimila seicento pagine, suddivise in quattro grandi «nodi» – 14 agosto, 16 novembre, 17 marzo, 17 aprile – la cui pubblicazione durerà più di trentacinque anni. In questa matassa brulicante di piccola storia e di grande storia, in questo flusso immenso che porta via tutto, in questa ruota della fortuna e della sventura, Solženicyn si affretta lentamente, torna indietro nel tempo, cerca l’ordine nel disordine del mondo – per far nascere una seconda volta la Rivoluzione.

Il cantore del popolo russo

Cosa è andato storto in Russia? Questa è la domanda che anima questo lavoro. Ma per l’autore de La Russia sotto la valanga (1998), il male si riduce in fondo a una cosa sola: l’irruzione dell’Occidente, dalla «finestra aperta» di Pietro il Grande sull’Europa, usando le parole di Pushkin ne Il cavaliere di bronzo, al vagone piombato di Lenin. Con tutte le sue forze, Solženicyn rifiutò la «russità» della Rivoluzione. Sembra come se essa fosse caduta da un cielo vuoto. Sono tutt’al più il lettone, il tedesco, l’ebreo, i suoi sinistri messaggeri, ma inconsci e non certo demonizzati. Il che rende assurda la reductio ad antisemitum a cui è stata consegnata la sua opera, tanto più assurda in quanto alla fine della sua vita, in Due secoli insieme: ebrei e russi prima della Rivoluzione (2002-2003), analizzò l’antisemitismo russo e la russofobia ebraica, predicando l’assoluzione delle colpe per entrambe le parti.

È l’uomo che ha una sola curiosità – la terra russa – e un unico protagonista – il popolo russo- che investe di tutte le virtù. Questa è la «glebafilia» cara a Dostoevskij. Il popolo puro, santo, incontaminato, unico depositario dell’anima della nazione, come in Péguy. Un mondo di cui Solženicyn è nostalgico e che ha fatto rivivere anche nel suo vocabolario, ricorrendo a linguaggi arcaici ed espressioni dialettali, attingendo alla fonte della saggezza popolare e alle raccolte di proverbi. L’etnografo del folklore russo funge quindi anche da lessicologo, con una sintassi sapiente e innovativa.

Dissidente in Oriente, dissidente in Occidente

Molti in Occidente si sbagliano nel vedere in lui un nostalgico dell’«Impero degli Zar», proprio lui che raccomanda una democrazia dei piccoli spazi, «alla Svizzera», come scrisse una volta, non senza malizia, Claude Durand, che era l’agente di Solženicyn. Durante tutto il suo lavoro, Solženicyn ha esortato il suo popolo a ritirarsi sulla terra russa, preconizzando il modello della zemstvo (autogestione locale) e della decrescita, che ha chiamato, con accenti francescani, «l’autosufficienza radiosa».

Vent’anni e tre mesi dal momento del suo esilio forzato, avvenuto il 27 maggio 1994, riuscì finalmente a tornare a casa («mi faranno tornare in tempo per morire in Russia», scriveva nei suoi Schizzi dell’esilio, pubblicato nel 2005, ultimo volume delle sue memorie). Riprendendo la critica cara agli slavofili di un’élite liberale occidentalizzata, non trovò parole abbastanza dure per denunciare il dilagare della cultura mercantile, di cui aveva redatto in anticipo, trent’anni prima, la più implacabile delle accuse nel suo così profetico «discorso di Harvard» (Il declino del coraggio, 1978), nel quale denunciava l’accerchiamento della Russia da parte della NATO e la guerra contro la Serbia. Il vecchio lottatore stava sparando le sue ultime cartucce, prima di morire il 3 agosto 2008 a Mosca.

François Bousquet

Traduzione a cura di Manuel Zanarini

(François Bousquet,  Revue Éléments, Alexandre Soljenitsyne, la lumière qui nous apprend à résister, 29 marzo 2022)

Info:

https;//www.revue-elements.com/

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