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Marco Tarchi Opinioni

Ostracismo

L’editoriale a cura di Marco Tarchi del numero 366 di “Diorama Letterario” già in uscita. Come abbonarsi a Diorama letterario: è possibile sottoscrivere l’abbonamento direttamente dal sito internet (consigliamo anche il quadrimestrale “Trasgressioni”) www.diorama.it, sezione Diorama e scrivendo alla E-mail mtdiorama@gmail.com. Ricordiamo che “Diorama Letterario” è l’unica Rivista in Italia dove è possibile leggere, oltre che agli scritti di Marco Tarchi, i pareri e le analisi di Alain de Benoist e di tanti altri autori, compresi quelli del Gruppo di Ricerca e Studi del G.R.E.C.E. Italia. Buona lettura!

Prima dell’apertura delle ostilità, avevamo abbozzato su queste colonne un’interpretazione della situazione che si era venuta a creare attorno alle tensioni russo-ucraine. Ci sembrava evidente che ci si trovasse di fronte ad una trappola tesa dagli Stati Uniti d’America, tramite il braccio armato transatlantico, alla Russia, messa di fronte all’alternativa di vedere anche formalmente inglobata nella Nato un’Ucraina ormai da otto anni sostenuta con armi, risorse economiche e aperture di credito politiche dall’alleanza occidentale oppure tentare con la forza di impedire il rafforzamento di questo connubio. Nel primo caso, il governo di Mosca avrebbe dovuto fare i conti con un ulteriore dispiegamento di apparati militari ostili alle frontiere del proprio paese, penultima mossa manca per ora, malgrado i reiterati tentativi di destabilizzazione, la conquista alla causa della Bielorussia del programmato accerchiamento da Ovest. Nel secondo caso, si sarebbe esposto, oltre che ai rischi di un intervento militare contro un paese fornitissimo di strumenti bellici tecnologicamente avanzati, all’ancor più insidiosa campagna che i suoi nemici avrebbero condotto sul piano mediatico, dando fondo a tutte le risorse del grande soft power di cui dispongono. Scegliendo quest’ultima opzione, Vladimir Putin ha forse commesso un errore cruciale non solo per lui e per il paese di cui è alla guida, ma anche per quanti si ostinano a sperare di vedere un giorno (ri)nascere un’Europa indipendente, libera da vassallaggi e condizionamenti di potenze esterne e capace di costruirsi un destino all’altezza dello straordinario lascito delle culture che ne hanno modellato la policroma identità.

Con il lungo discorso che ha preceduto l’entrata in guerra e con le mosse successive, Putin ha infatti offerto una pesante pezza d’appoggio alla lunga ed intensa campagna allarmistica messa in atto da Joe Biden, fedele alla promessa di rimettersi alla testa dell’ordine planetario che aveva formulato all’indomani dell’elezione alla presidenza. Dipingerlo come un avventurista crudele e bugiardo, animato dal desiderio di ricostruire l’impero zarista o l’intera Unione Sovietica, per poi aggredire ogni altro vicino e scatenare una nuova guerra mondiale per fare un solo boccone dell’intera Europa, è stato per gli Stati Uniti un gioco da ragazzi. Che, con le truppe politiche, giornalistiche e intellettuali a disposizione, cresciute a dismisura dal 1989 in poi grazie all’arruolamento volontario della legione di ex comunisti in cerca di perdono per gli avventati precedenti fervori, si è subito trasformato in un secondo fronte di guerra, parallelo a quello combattuto sul terreno dagli ucraini con l’arsenale bellico fornito dalla Nato e da molti paesi dell’Unione Europea. Come andranno a finire le cose sul piano propriamente militare non è ancora dato, in questa fosca vigilia di Pasqua, saperlo. Ma quale esito avrà il confronto in altri campi, a partire da quelli politico e culturale, è già chiaro. Geopoliticamente, calerà sulle frontiere orientali del vecchio continente una nuova cortina di ferro, non meno impenetrabile di quella costruita ai tempi della Guerra fredda, ma questa volta imposta dalle classi dirigenti dei paesi che per oltre quarant’anni ne avevano deplorato la precedente versione. Sanzioni, esclusioni e ricatti getteranno le basi di un’ostilità senza quartiere tra Unione Europea e Russia, che ben difficilmente si riassorbirà (contrariamente a quanto pensano taluni fautori dell’egemonia liberale sull’intero globo terracqueo ai quali il pluralismo piace solo quando va a loro esclusivo favore), anche qualora al Cremlino andasse a segno un colpo di Stato contro Putin o addirittura – come sognano gli agit-prop più fanatici dell’ideologia dei “diritti umani” – dilagasse fra Mosca e San Pietroburgo l’ennesima rivoluzione colorata preparata e finanziata dal Soros di turno per conto di Washington. Una storia e una civiltà che si sono forgiate e consolidate nel corso di un millennio non si cancellano dall’oggi al domani neanche quando si dispone dei formidabili strumenti di indottrinamento dell’american way of life. Che tuttavia da questa vicenda stanno attingendo ulteriori pretesti per intensificare la già profonda azione di lavaggio del cervello del pubblico internazionale, e in particolare europeo. È infatti su questo versante che la guerra in corso sta producendo altri effetti devastanti. Che nella fattispecie non riguardano uccisioni, ferimenti e devastazioni – dati che, qualunque giudizio si dia sulle ragioni delle parti in conflitto, non possono lasciare indifferenti – ma sfregi alla verità, insulti all’intelligenza e minacce (queste sì, autentiche) alla libertà di opinione.

I media pregiudizialmente allineati con le ambizioni e le pratiche di dominio di Stati Uniti e alleati-vassalli martellano da anni i loro utenti con quotidiane accuse al governo russo di soffocare le voci dissenzienti, attribuendogli responsabilità dirette in avvelenamenti di oppositori e uccisioni di giornalisti avversi. E sul piano della brutalità dei metodi, se si dà credito a queste argomentazioni (e illazioni), hanno dalla loro parte un deciso vantaggio comparativo. Tuttavia, quando si trovano di fronte ad un’occasione opportuna, non esitano a perseguire l’identico scopo con gli strumenti più felpati e asettici dei quali dispongono. Denunciando le altrui fake news e diffondendo le proprie, ponendo enfasi sulle notizie su cui possono speculare e passando sotto silenzio quelle che li metterebbero in imbarazzo. E, dovunque possibile, escludendo dal campo ogni interlocutore sgradito. Ormai non soltanto più con la tecnica soft della cancellazione o minimizzazione delle presenze scomode dalle pagine dei giornali o dai talk shows radio-televisivi, ma anche con quella hard della messa al bando diretta, come è capitato a suo tempo con la radiazione di Donald Trump da Twitter, del comico Dieudonné e del polemista Alain Soral da Youtube, Facebook e Instagram dove vantavano centinaia di migliaia di ascoltatori, nonché di molti altri utenti non allineati da questo o quel social, e come si è verificato adesso con la cancellazione dall’emisfero informativo di Russia Today, Sputnik e di qualsiasi altro canale collegato alla Russia o sospettato di esserne simpatizzante.

Come in ogni guerra che meriti il suo nome, una volta ridotta al silenzio la capacità difensiva del nemico, il piano strategico di coloro che da molto tempo avevano pianificato e istigato lo scontro, trasformando la Nato da ipotetico scudo contro le minacce di un Patto di Varsavia scioltosi nel 1991 in ariete anti-russo proiettato sino ai confini del paese preso di mira e fomentando rivolte e golpe ostili a Mosca in tutti i territori già appartenuti all’Unione sovietica, è passato ad una seconda fase, quella dell’aggressione aperta, in una replica a ruoli invertiti di quanto stava accadendo sul campo di battaglia. E, per quanto attiene alle armi che è possibile dispiegare in questo teatro di conflitto, con non minore ferocia.

L’offensiva si è infatti immediatamente allargata ad ogni ambito in cui fosse possibile costruire e alimentare lo storytelling dell’orco sterminatore e delle sue vittime indifese. Un catalogo con pretese di completezza degli espedienti adottati esulerebbe dallo spazio disponibile in una rivista, ma anche una sintetica rassegna può renderne l’idea.

Tanto per fare qualche sintomatico esempio, abbiamo visto fiorire una miriade di illazioni sulla salute, prima mentale poi anche fisica, di Putin, per convincere il pubblico che un governante non affetto da tare mai ricorrerebbe alla guerra per affermare gli interessi ed assicurare la sicurezza del suo paese. Abbiamo ascoltato frementi richieste di condanna della aggressione a uno Stato sovrano – «sempre ingiustificabile!» – quegli stessi politici e giornalisti che avevano applaudito con entusiasmo ogni volta che gli Usa o la Nato avevano aggredito paesi come Panama, Grenada, Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia e reclamato che si facesse lo stesso con altri “Staticanaglia” (chi fra costoro disapproverebbe una aggressione all’Iran? C’è da scommetterci: nessuno). Sono state date per certe notizie poi rivelatesi false – anche se solo poche fonti lo hanno riportato – come lʼ“eroico olocausto” dei 13 difensori dell’Isola dei Serpenti, in realtà arresisi senza combattere, o gli exploits nei cieli del misterioso pilota ucraino in realtà partorito da un videogame americano. E i nostri occhi ed orecchi sono stati sottoposti alla visione e all’ascolto di un repertorio retorico senza precedenti. Quasi nessuna pagina dello spartito della commozione e della compassione – lo stesso che viene ogni giorno suonato in materia di immigrazione – ci è stata risparmiata.

Si è iniziato il 25 febbraio con la lettera di Daryna, 11 anni, “arrabbiata con Putin”, commentata sul «Corriere della sera» con questi sobri toni: «Fino a due giorni fa le sue giornate erano scandite dalla scuola e gli impegni sportivi, oggi dal rumore delle bombe», con i bambini malati di cancro rinchiusi nel bunker dell’ospedale di Kiev, con la foto della vecchia Olena Kurilo, ferita a causa di un bombardamento, il viso avvolto dalle bende insanguinate, con il veterano che piange avvinghiato alla figlia mentre si appresta a rivestire la divisa. Il giorno successivo abbiamo visto in foto, fucile in mano, Yaryna e Sviatoslav che si sposavano e subito dopo correvano ad arruolarsi, le badanti ucraine piangenti mentre telefonavano ai figli lontani, Gramellini che già proclamava Zelensky «Un eroe del nostro tempo» e Galli della Loggia che forniva dell’attacco russo la seguente acuta spiegazione: «la libertà fa paura». In seguito la galleria degli orrori e degli eroismi si è progressivamente ampliata, fino a raggiungere il parossismo nell’esaltazione del contrasto tra Buoni e Cattivi: le sequenze fotografiche dei «volti della tragedia», gli esuli con cane al seguito (in un paese sulle cui strade – parliamo per esperienza diretta – le povere bestie ridotte al randagismo e schiacciate dalle auto non si riescono neppure a contare), l’uomo che è senza gambe ma combatte, le mamme russe che assicurano che i loro figli sono stati mandati al fronte con l’inganno. E poi, allargando la rappresentazione ai sostenitori della Giusta Causa sparsi in giro per il mondo, l’albergatore che caccia i turisti filo-Putin a sprezzo dei sudati guadagni, lo studente vicentino in erasmus a Kiev che prepara le molotov in attesa dell’incursione dei barbari, il tennista che ha battuto Federer e l’allenatore che ha debuttato in Champions League, ora entrambi arruolati nell’armata che difende la Civiltà dalle orde del Male… Un’offensiva di brain washing interminabile, che non ha esitato a varcare ripetutamente le soglie del ridicolo, come quando «Le Figaro» ha annunciato che un prezioso repertorio artistico dell’antichità, la Venere austriaca di Willendorf, potrebbe venire invece dall’Ucraina, o il sito di cinema My Movies, titolando nella pagina di apertura «Il cuore ucraino dell’uomo ragno», ci ha informato che, grazie allʼ«ucraino-americano Steve Ditko, una delle leggende del fumetto statunitense», persino i supereroi hanno capito saggiamente con chi ci si deve schierare (anche se la cosa ci era nota sin dai tempi in cui tutti i loro predecessori conciavano per le feste i malvagi russi, allora sovietici). Il tutto mentre il rotocalco TV di Cairo editore spiegava ai suoi lettori quali sono le specialità pasquali della gastronomia di Kiev e dintorni.

Lo spettacolo si presterebbe più all’ironia, sia pur amara, che all’indignazione se non fosse che, accanto a questo aspetto puramente propagandistico della campagna di stampa imbastita dai “difensori dell’Occidente”, se ne sta delineando un altro ancora più infido e pericoloso per chi tiene alla preservazione dei pochi spazi di espressione di opinioni non collimanti con il pensiero unico della political correctness. Con lo scoppio della guerra si è infatti aperto un nuovo capitolo della lunga storia dell’intolleranza, fatto di delazioni, liste di proscrizione e di un vero e proprio ostracismo.

Se da un lato si è inaugurata la stagione della caccia ai “putiniani” dichiarati od occulti, che ha visto fiorire tanto le denunce generiche di una presunta lobby massmediale finanziata dal Cremlino a sostegno delle proprie posizioni1 quanto gli elenchi nominativi dei reprobi additati alla pubblica esecrazione2 , inclusi i deputati che non hanno voluto seguire lo show in diretta video di Zelensky dinanzi alla Camera italiana3 , dall’altra è esplosa in ogni angolo dellʼ“Occidente democratico” una forsennata isteria contro tutto ciò che ha a vedere con la Russia.

Anche su questo tema gli esempi potrebbero riempire decine di pagine. In Italia ha fatto scalpore il rifiuto dellʼUniversità Milano Bicocca di far effettuare allo scrittore Paolo Nori il previsto ciclo di lezioni su Dostoevskij, e con la “correzione” del prorettore dell’ateneo che, di fronte al clamore suscitato dal caso, ha chiesto allo studioso di aggiungere, nelle lezioni, riferimenti ad autori ucraini (ottenendone, per fortuna, un rifiuto). Ma c’è stato molto altro, dalla rottura del Teatro alla Scala con il direttore d’orchestra Valeri Gergiev e il soprano Anna Netrebko alla richiesta di Instagram ad una casa editrice di eliminare l’aggettivo «russo» dalla pubblicità di un libro di un maestro del formalismo… russo. Altrove non è andata meglio. In Francia a furor di post e tweet si è reclamato il sequestro dei duecento quadri di alta qualità della collezione Morozov esposti già dal settembre 2021 in una mostra della fondazione Vuitton al parigino Bois de Boulogne, visitata da più di un milione di persone. Alcuni dei leoni da tastiera hanno proposto di mettere all’asta i dipinti per acquistare armi da spedire alla “resistenza” ucraina (e alla fine, comunque, il governo francese ha deciso di non far tornare a Mosca due dei pezzi della collezione, uno perché di proprietà di un “oligarca”, l’altro perché di un’istituzione culturale ucraina)4. In Finlandia, una vicenda analoga si è risolta solo dopo molti tentennamenti. Nel mentre, fiorivano le messe al bando dei segnati – per nascita: non è che questo particolare vi ricordi qualcosa…? – dal Marchio di Caino da ogni tipo di competizione internazionale: via gli atleti russi – e bielorussi – dalle Paralimpiadi (alla faccia della non discriminazione…), via tutti gli altri sportivi da tornei e manifestazioni, a meno che non si pronunciassero pubblicamente contro la guerra e contro Putin, via i gatti russi dalle mostre e… la quercia piantata dal romanziere Ivan Turgenev 198 anni fa dal concorso dellʼalbero europeo dellʼanno! Insomma, l’ondata di russofobia aizzata dai cantori della liberaldemocrazia ha travolto ogni argine ed instaurato prassi che ci era stato assicurato fossero proprietà esclusiva dei regimi autoritari o totalitari5 .

Se, e quando, si uscirà da questa sorta di stato di emergenza politico-informativa e dalla sua prassi di editti censorii, non è facile dire. Né è ancora possibile trarre un bilancio di tutte le conseguenze che la guerra russo-ucraina provocherà.

Qualche osservazione riassuntiva, però, si impone già adesso. E una valida traccia di analisi si può ricavare dai dieci punti evidenziati in un contributo dellʼOjim, l’osservatorio francese del giornalismo, riservato al trattamento mediatico delle vicende belliche6 : 1. Vladimir Putin ha ucciso il Covid. Un racconto ha rimpiazzato l’altro. Il racconto dei crimini di guerra ha sostituito il racconto del Covid. Con lo stesso sottofondo musicale e lo stesso ritornello: la paura e le sue diverse orchestrazioni. 2. Il conflitto ha ucciso anche l’elezione presidenziale francese, sostituita da un romanzo fotografico la cui ultima immagine – una rielezione trionfale e felice – si lascia indovinare in maniera sempre meno subliminale. 3. L’unanimità è sempre sospetta. Da «Le Monde» a «Le Figaro», da «Médiapart» à «Le Point», dalle radio private e pubbliche alle televisioni pubbliche e private il ritornello è quasi lo stesso, con qualche variazione di stile. Non è vietato stupirsene. E anche analizzarne alcune cause. 4. La propaganda esiste da ambo le parti. 5. La propaganda russa è massiccia a domicilio, i media stranieri sono proibiti e i giornalisti russi subiscono una museruola. Ma questo soltanto in Russia. 6. La propaganda americano-ucraina è altrettanto massiccia ad Ovest, i media russi sono vietati in tutta lʼUnione Europea. 7. I russi hanno rinunciato al soft power dell’informazione; gli unici comunicati laconici sono quelli del comando russo che indicano i progressi militari (beninteso, in ritardo e sicuramente in modo dubbio), il numero di morti e di feriti (anche qui in ritardo, vale lo stesso commento). 8. Il soft power americano è un’arma da guerra. Nel 1990, il geopolitico americano Joseph Samuel Nye lo aveva teorizzato in un libro celebre, The Changing Nature of American Power, che ha completato nel 2004 con Soft Power: The Means To Success In World Politics. Il soft power, citiamo, «formatta le preferenze dell’altro attraverso la cultura, i valori e le politiche estere»; in una frase, «la miglior propaganda non è la propaganda». Questo soft power non esclude lo hard power, lo completa al minor costo. 9. L’odio, un tempo oggetto di repulsione, diventa autorizzato. Le reti sociali americane autorizzano (incoraggiano?) gli utenti ad inneggiare all’omicidio contro i russi e i loro dirigenti. Bisognerà ricordarsene più tardi, quando i «discorsi d’odio» saranno di nuovo banditi in maniera equivoca e serviranno a giustificare la censura. 10. Il ritornello dellʼUnione Europea, ripreso da numerosi giornalisti affetti da amnesia, «si tratta della prima guerra in Europa dal 1945», non è che una menzogna. Nel 1999, gli aerei della Nato hanno bombardato per 78 giorni la Serbia, causando centinaia di morti civili.

Sono affermazioni sottoscrivibili dalla prima all’ultima riga. Che si collocano sullo sfondo di una situazione che con il passare delle settimane continua a peggiorare. Mentre i governi succubi delle volontà della Casa Bianca moltiplicano gli invii di armi pesanti al governo ucraino e nel contempo, con sconcertante ipocrisia, fanno appelli alla pace, facendo credere ai cittadini europei che Kiev possa, prolungando le ostilità, obbligare la controparte a sottostare alle sue condizioni, l’infodemia induce settori consistenti dell’opinione pubblica a prestare fede alle congetture più assurde, paventando attacchi nucleari (si veda il boom delle vendite di bunker) e una terza guerra mondiale alle porte. A loro volta, constatando il successo della strategia messa in atto, le classi politiche che si prestano al gioco nordamericano stringono i tempi per portare nell’Unione Europea e/o nella Nato quei paesi che sino ad oggi avevano optato, volenti o nolenti, per la neutralità. Sui giornali fioccano le cronache alla Orson Welles di invasioni imminenti che questa volta, invece di avere i marziani per protagonisti, vedranno le barbariche orde d’Oriente fagocitare prima l’Estonia, poi la Lettonia e la Lituania, indi la Polonia – per l’occasione perdonata del peccato di sovranismo, benché soggetta alla scure di tagli ai contributi Ue se non si metterà al passo della cupola di Bruxelles. Fino a quando, a soccorrere gli sventurati, non arriveranno “i nostri”, cioè i loro, le truppe Nato pilotate da oltreoceano.

In questo clima, l’abdicazione dellʼEuropa alla sua autonomia fa ulteriori passi avanti, con il rischio concreto dell’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato – con l’entusiastico sostegno delle rispettive formazioni nazionalpopuliste, Democratici Svedesi ed ex Veri Finlandesi, ormai avviati sulla stessa via di Lega e Fratelli d’Italia: opportunismo oblige –, mossa alla quale non potrebbe conseguire che un ulteriore inasprimento della frattura con la Russia. E mentre i “politologi con lʼelmetto” , come li ha opportunamente definiti un serio studioso di relazioni internazionali 7 , e altri intellettuali di varia formazione arruolati nelle furerie dell’armata made in Usa plaudono a queste scelte “coraggiose” e vergano editoriali infuocati contro chi si azzarda a “comprendere” le motivazioni che guidano le azioni del loro Nemico Assoluto, non pochi di coloro che le guerre le hanno vissute e non solo studiate sui manuali a scuola avanzano, poco ascoltati e molto deplorati, le loro riserve sul futuro che sanzioni, sogni di regime change e spedizioni di armi pesanti all’ex comico issatosi ai vertici della politica ucraina stanno preparando.

Avventurismi all’esterno, guerra al dissenso all’interno: strane democrazie, quelle che ogni giorno di più vanno assomigliando, nella prassi, ai regimi di cui si proclamano avversari.

Marco Tarchi

Note

1. Particolarmente avvilente, per noi, è stato vedere in prima fila fra i propalatori di questa accusa un ex collaboratore di questa rivista come Alessandro Campi, dalle cui opinioni e prese di posizione peraltro siamo da oltre venticinque anni in radicale dissenso. Purtroppo, è tardi per rimpiangere di aver accolto, nel 1981, la richiesta di quel neodiplomato diciottenne dai toni già allora arroganti e sentenziosi di scrivere su «Diorama». Lʼintelligenza, purtroppo, non preserva dallʼopportunismo.

2. Fra le tante, merita una segnalazione quella dai toni più odiosi, compilata da Gianni Riotta e comparsa su «La Repubblica» del 3.3.2022: Ucraina: destra sinistra e no green pass. Identikit dei putiniani dʼItalia, dove, fra lʼaltro, figura anche una persona deceduta da nove anni. Ma negli insulti si sono distinti anche altri personaggi non nuovi alla frequentazione del grado zero dellʼintelligenza, come Beppe Severgnini. Fra i più veementi nel gettare fango su chi aveva espresso opinioni fuori della norma è stato il direttore de «La stampa» Massimo Giannini, con un tweet in cui si è scagliato contro i «miserabili lacchè di Santa Madre Russia (sedicenti storici, poveri webeti e pseudo-giornalisti)» che gli avevano rimproverato di aver esibito sul suo quotidiano, come prova delle stragi perpetrate dai russi, unʼimmagine di civili uccisi nel Donbass da un attacco ucraino. Non sono mancate anche delazioni nei confronti di semplici cittadini, come la docente di lingua russa Pavlova Ivanka Nikolaevna, denunciata da una ex alunna per aver preso le parti del suo paese (cfr. Alice DʼEste, Padova, professoressa a scuola: «I missili? È comprensibile che Putin li abbia lanciati», in «Corriere della sera», 1.3.2022).

3. Cfr. Giuseppe Alberto Falci, Zelensky alla Camera, chi sono i parlamentari che diserteranno l’aula, in «Corriere della sera», 22.3.2022. Fra i parlamentari maggiormente presi di mira dai giornalisti c’è stato il sottosegretario agli Esteri Di Stefano, del M5S, che in passato si era molte volte pronunciato contro la Nato ed ora ne è diventato ufficialmente un difensore.

4. Cfr. Éric Biétry-Rivierre, LʼÉtat français peut-il confisquer la collection Morozov?, in «Le Figaro», 25.2.2022 e Simon Cherner, Deux tableaux de la collection Morozov vont rester en France, ivi, 9.4.2022.

5.Stranamente, nessun intellettuale “liberale” di peso ha alzato la voce per far notare la palese e disturbante analogia fra lʼintimazione delle istituzioni nazionali e sovranazionali europee agli studiosi, artisti e sportivi russi a sconfessare il proprio governo per poter svolgere la propria attività e il giuramento richiesto dal regime fascista ai professori universitari per poter continuare ad insegnare. Qualche commento meriterebbe anche lo sconcertante quesito «Preferite la pace o il condizionatore acceso?» posto da Mario Draghi a un giornalista, che sembra una rivisitazione in chiave non meno grottesca del «Volete burro o cannoni?» mussoliniano in tempi di altre guerre.

6. Cfr. Guerre de lʼinformation, changements de récits et haine autorisée, in www.ojim.fr, 14.3.2022. 7 Cfr. Emidio Diodato, http://www.paradoxaforum.com/poli tologi-con-lelmetto-e-ingegneria-internazionale/.

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