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Metapolitica

Il conflitto e l’altro da sé

La fine della guerra fredda ha segnato la fine del mondo bipolare, ora assistiamo alla fine del mondo unipolare. Alla rottura irrimediabile di equilibri geopolitici egemonici declinati dalla globalizzazione, partorisce drammaticamente un nuovo mondo multipolare che segna la fine della illusione della “fine della storia” in un persuasivo mercato autoregolato “fuori dalla storia”. La guerra in Ucraina ha generato violente scosse telluriche destinate a ridisegnare radicalmente gli assetti (geo)politici ed economici mondiali. Da confronto bellico circoscritto all’area nevralgica che si estende a cavallo tra Europa e Federazione Russa, il conflitto russo-ucraino si candida a fungere da faglia e crinale delle relazioni internazionali, con una Europa subalterna e vittima delle sue contraddizioni, a partire dalla mancanza di sovranità e indipendenza. Il mondo ne uscirà quindi profondamente cambiato a prescindere dal destino in cui incorrerà l’Ucraina stessa, declassata per effetto di una precisa strategia e concatenazione di circostanze allo scomodo e tragico ruolo di pedina e vittima sacrificale in un confronto per procura che è uno spartiacque storico in una epoca di transizione. Questo conflitto pone quindi un problema di ordine generale, relativo a come pensare, in quanto europei, il nostro posto nel mondo e il nostro rapporto con l’altro da noi. Negli ultimi trent’anni questo “altro” ha assunto nomi continuamente diversi (l’Islam, la Cina, la Russia, forse l’India), ma una cosa è rimasta costante: lo abbiamo sempre rappresentato con le sembianze del “mostruoso”, dell’irrazionale, del patologico, dell’anormale, dell’arretrato. Ed è rispetto a questo altro, che non si sa bene se è un altro o la mera proiezione dell’Occidente sull’altro da sé su cui costruire artificiosamente una infausta identità aggressiva. È per differenza da questo “altro”, su cui sono proiettate tutte le caratteristiche del male assoluto, che emerge l’identità universalistica occidentale: i buoni, il progresso, i diritti umani universali, la ragione che si dispiega nella storia, la punta avanzata dell’umanità, il modello che tutti gli altri devono assumere, desiderare, amare, e se non lo fanno, se non riconoscono il loro essere arretrati e non riconoscono l’Occidente come oggetto di desiderio, è solo perché la loro malvagità e arretratezza li acceca. Il conflitto sarebbe, dunque, tra un’umanità razionale, matura, illuminata da un lato e un’umanità che brancola ancora nelle tenebre: tra democrazia e autocrazia. Cambiano i soggetti, ma questa rappresentazione non muta: semplicemente si sposta da questo a quello. Prima il mostruoso è la cultura islamica, poi diventa la Cina, poi la Turchia, poi di nuovo la Cina, presto scalzato, nella classifica del mostruoso, dai russi.

Alla base di questa compiaciuta rappresentazione – se mettiamo da parte tutte le questioni di geopolitica, di politica di potenza, di interessi economici e ci limitiamo alla questione culturale – stanno due presupposti. Il primo è quello secondo cui i valori occidentali sono quelli universali, anche se all’interno dello stesso Occidente hanno una data di nascita estremamente recente, il che significherebbe – secondo logica – che sino a qualche anno fa l’Occidente non era Occidente. Il secondo è quello secondo cui nella storia dell’Occidente, e solo in essa, si dispiega la ragione, mentre gli altri sarebbero arretrati, dunque nell’errore, da cui possono emendarsi solo assimilandosi, sciogliendo la loro storia nella civilizzazione progressiva. Questo impone agli altri, a tutti gli altri, di emanciparsi delle loro usanze “arcaiche”, delle loro tradizioni e società stazionarie, ferme a un passato oramai superato, per fare un balzo ed entrare nella storia universale. Il progresso consisterebbe allora – nel dettato globalista – in un enorme processo di occidentalizzazione del mondo (per dirla con Serge Latouche): tutti gli uomini della terra devono assumere i costumi dell’oggi, adottare il mercato come sistema fondamentale dello sviluppo economico, sviluppare un modello democratico identico al nostro (cioè liberale), che diventa l’unico modello di democrazia possibile (falsificando la stessa concretezza storica della realtà di questa istituzione politica). Soprattutto, davanti ai valori universali occidentali non si può transigere, sicché i conflitti, che esigerebbero riconoscimento reciproco per essere risolti, diventano immediatamente conflitti di civiltà, tra il bene e il male.

L’universalismo astratto tende alla riduzione all’uno, a ciò che, di volta in volta e in maniera diversa in circostanze diverse, l’Occidente determina come il vero, il bene, il giusto e come l’apice della civiltà. Pratica quindi in realtà un riduzionismo totalitario, la costrizione all’unico, all’identicità dell’assimilazione. Su questa base l’Occidente ha inanellato una aggressione dietro l’altra, un’invasione dietro l’altra: il bombardamento della Serbia, l’invasione dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Siria, della Libia, solo per citarne alcuni. La Brown University di Princeton ha calcolato dal 2001 a oggi 929 mila vittime tra Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Yemen e Pakistan, con 37/59 milioni di sfollati interni e profughi. E ora siamo al cospetto di un conflitto aperto non solo con la Russia, ma anche con la Cina, mentre resta irrisolto quello con il mondo Islamico. Ma poiché questo rischia di portarci a una catastrofe planetaria forse è il caso di iniziare a chiederci: è con questo atteggiamento che l’Europa può rapportarsi al resto del mondo? O abbiamo bisogno di cambiare il nostro atteggiamento fondamentale verso gli altri e il nostro modo di considerare il nostro posto e il nostro ruolo nella storia, sottraendoci al tramonto dell’estremo Occidente?

L’universalismo astratto non può che portare l’Europa ad un autismo autoreferenziale e quindi a uno scontro frontale con la realtà, che produrrà la devastazione anche qualora non dovesse deflagrare in guerra aperta e devastante con il nemico di turno. Dobbiamo allora fare un passaggio inverso, una metanoia, un mutamento di paradigma, una conversione di carreggiata della stessa modernità, che è un ritorno all’Europa autentica, continentale e non atlantica: pensare la storia come una molteplicità o pluralità di storie in un mondo multipolare. Gli altri non sono indietro rispetto a noi. Semplicemente sono un’altra storia, altre identità, hanno un differente criterio di sviluppo, che solo dalla prospettiva etnocentrica appare come arretrato. È quindi necessario pensare la realtà delle relazioni internazionali che vanno magmaticamente manifestandosi dalla frattura tettonica in corso a partire da un mondo multipolare, in cui si sviluppano più storie, con differenti linee di sviluppo, e che a legarle insieme non è l’idea di espansione del modo di vita occidentale, ma la reciprocità tra identità differenti. Non la riduzione all’uno, ma il proliferare delle differenze, di grandi spazi e civiltà.

Perché questo avvenga è necessario iniziare a mettere da parte l’idea universalistica che esista un principio unico su cui uniformare l’intero globo, e sviluppare invece quella capacità che dovrebbe qualificare per davvero l’essere europei: l’unità nella diversità, la capacità di relazionarci al punto di vista dell’altro, di cogliere le dinamiche interne nelle altre culture, proprio per non snaturare e sradicare la nostra in favore di un apolide cosmopolitismo tanto mercantile quanto nichilista, che le distrugge tutte. Anche perché sta accadendo una cosa semplice ma non percepita: quello che pensa la sfera pubblica occidentale è del tutto indifferente per il resto del mondo (demograficamente maggioritario e in ascesa), che vede senza più subalternità l’arbitrario desiderio occidentale di imporre il proprio modo di vita ovunque. L’umanità è triplicata negli ultimi settanta anni (8 miliardi), tra trenta anni potrà dire di essersi quadruplicata in un solo secolo (10 miliardi), cosa mai avvenuta nella storia umana, viepiù partendo già da 2,5 miliardi quanti eravamo nel 1950, 1,2 a inizio Novecento. L’Asia è il 60% della popolazione mondiale, mentre l’Occidente che era ancora il 30% del mondo ai primi del ‘900 e che oggi è regredito al 14%, tra trenta anni sarà il 12% della Popolazione, e già ora il PIL dell’Europa è il 18% e quello del Nord America il 13%, di quello mondiale.

L’egemonia statunitense forgiatasi nel Novecento è in una lenta ma inesorabile decadenza e declino, rendendo la transizione d’epoca assai rischiosa: non potendo costruire un ordine definito, mira solo a introdurre disordine, conflitto, per impedire al concorrente di avvantaggiarsi di questo ordine, perché quel primato e quello stile di vita non è negoziabile. L’universalismo è all’oggi una banale copertura ideologica dell’Atlantismo più aggressivo e protervo rivestito di una ipocrita ideologia dei diritti umani, è un pensiero di sopraffazione perché non può tollerare la differenza e il destino dei Popoli. L’Europa assoggettata a questa deriva si nutre solo della sua marginalità servile, prima vittima di sé stessa, incapace di un protagonismo sovrano, di indipendenza strategica e visione multipolare.

Il dominio di sé “regna sulla potenza” e dimora nell’Essere, come Martin Heidegger ha lasciato ontologicamente in eredità al cospetto del tramonto nichilista dell’estremo Occidente: scrive Alain de Benoist che la potenza è costituente, mentre il potere è costituito, ma la potenza non è un fine a sé medesimo. Il potere si configura non solo con un pensiero unico, liberista quanto basta e libertario quanto serve, radicalmente eterodiretto e politicamente svuotato, declina una forma nuova di totalitarismo. Che non è il dispotismo fondato sul terrore, sulla violenza e il partito unico, ma una forma di “globalitarismo” pervasivo con tratti distopici dove tutto è dentro, niente è fuori, il concavo si fa convesso e tutto quel che resiste viene eliminato. La potenza, di contro, è una “contestazione totale” al presente, la rimessa in forma del principio, è l’Impero, ossia l’unità politica e spirituale di un’Europa civiltà possibile solo se costituita al suo interno da una costellazione di diversità.

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