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Icone del possibile. Giardino, bosco, montagna

Icone del possibile. Giardino, bosco, montagna

Giovanni Sessa

Oaks Editrice, 2023

Rilevante l’ultima opera di Giovanni Sessa, che pone a probabile sintesi l’appello teoretico che lo contraddistingue per un pensiero fondato sul ritorno alla physis, alla natura intesa in senso greco, luogo della scaturigine della vita a cui ogni ente fa ritorno. Non è quindi casuale o accessorio che il volume sia preceduto dalla prefazione di Massimo Donà e dall’introduzione di Romano Gasparotti, pensatori contemporanei che non si sono sottratti a un confronto sul tema e con i quali l’autore manifesta una corrisposta sintonia.

Se l’icona è il segno simbolico che è in rapporto simbiotico tra interiorità ed esteriorità, in quanto presenta delle qualità o la stessa configurazione dell’oggetto significato, la ricca ed erudita argomentazione culturale dell’autore – che non si limita alla filosofia, ma si articola con la storia dell’arte, la letteratura e la ermeneutica del figurato – rende il volume completo di una tesi fondante sull’origine, sul principio, individuandolo nella dynamis, potenza-possibilità-libertà, fondamento-infondato sempre all’opera nella physis (natura naturante) e mai definitivamente oggettivabile in alcun atto, con tre declinazioni ermeneutiche sul crinale tra naturale e artificiale: il giardino, il bosco e la montagna. Il giardino viene considerato quale luogo eutopico della auspicata conciliazione di Orfeo e Prometeo. Il bosco, espressione dinamica di produttività-distruttività della dynamis non solo del climax neghentropico, ma anche di chi lo vive o attraversa iniziaticamente. La montagna, infine, è letta quale simbolo, axis mundi, della reciprocità tra micro e macrocosmo, la verticale che congiunge terra e cielo nella pratica ascensiva, dove ogni vetta vale per la tensione realizzativa più che per l’altezza metafisica. Queste tre icone non vengono però evocate con mero intento esegetico, ma con la esplicita volontà di emancipare l’immaginario contemporaneo – condizionato dall’utilitarismo – dalla costrizione economicista della Forma capitale. In tal senso la riflessione dell’autore non si confina nella speculazione teoretica, ma si pone come proiezione metapolitica, confrontandosi con i limiti dell’approccio ecologista, se appunto deprivato della questione fondante sul principio e il rapporto tra cultura e natura.

Ciascun luogo e ciascuna comunità naturale ha un Genius loci che può essere comparato a una divinità, la cui presenza dà carattere, coesione e identità a quel luogo o a quella comunità. Il Genius loci cerca di mantenere un equilibrio congeniale tra gli elementi naturali e le culture, rappresentazioni molteplici dell’essere. Al contrario, si indispone all’anonimato se le caratteristiche e l’armonia vengono modificate da azioni o gesti estranei alla sua identità. I Greci ed i Romani legavano ciascun luogo ad un particolare nume: ogni fonte, ogni valle, ogni montagna aveva la propria divinità tutelare. Il Genius loci era un dio minore e locale: non risiedeva sull’Olimpo, ma in una certa città, collina o campagna. Le ninfe vivevano nelle fontane, nei ruscelli e nel mare. Le naiadi, ninfe delle sorgenti e dei laghi, apportavano fecondità. Le driadi erano spiriti degli alberi, dei boschi e delle foreste. Poiché, quando il suo albero veniva sradicato, anche la driade moriva, gli dèi punivano chi ne aveva causato l’abbattimento. La classicità suggerisce, dunque, che i luoghi possono avere un’anima e diventare sede di uno spirito del luogo, attraverso un processo di deposito, di accumulazione di affetti, di connessioni sentimentali, che vengono operati dalle generazioni che li hanno abitati. Tutte le culture tradizionali erano animate da un’interpretazione sacrale del luogo. Ogni angolo di terra del pianeta presenta una propria manifestazione simbolica; ogni luogo, in cui gli uomini abbiano lasciato segni anagogici della loro presenza, ha una propria identità contemporaneamente irripetibile e universale. Mircea Eliade ha descritto compiutamente come le culture sacrali si basassero sulla consapevolezza che la terra ha un’energia ilomorfica, che varia da luogo a luogo, il telema mercuriale. Rispettare un “territorio”, proteggendolo ecologicamente invece di assoggettarlo, significa quindi permettere alla sua energia di vivere, di sopravvivere nel tempo, declinandosi nello spazio, come un rito che voca l’eterno.

I sacerdoti greci e gli àuguri romani, piuttosto che i druidi celti, erano determinanti nella scelta della fondazione di una città – cosa di per sé sacra, perché sacro era ritenuto l’abitare – che prevedeva primariamente l’individuazione del luogo idoneo per stabilire un nucleo urbano, in base a conoscenze di tipo cosmologico e divinatorio, ancorché geologiche e naturali. L’insediamento, in tal modo, diveniva il luogo in cui poteva esercitarsi la sacralità dell’abitare, il microcosmo in simbiosi con il macrocosmo. Lo scopo della fondazione rituale di un luogo consisteva però anche nel “dovere scendere a patti” con il Genius loci del luogo in cui si costruiva. L’energia propria al luogo naturale veniva richiamata e invitata a “collaborare” con gli abitanti di quell’insediamento. Gli antichi ritenevano che, all’identità propria al luogo, si sommasse l’energia propria alla sedimentazione dell’abitare e degli abitanti del luogo, generata dalle loro attività – sacre e/o profane – nel territorio. Lo spazio era considerato una modalità determinante dell’essere nel mondo e si riteneva impossibile comprendere l’essenza dell’uomo indipendentemente dall’ambiente in cui viveva. Si pensava che l’esercizio del pensiero non fosse indipendente dallo spazio/luogo in cui si abitava e che determinasse gli atteggiamenti stessi dell’essere umano. L’oikos greco, quale senso della dimora della manifestazione dell’essere, poneva fisiologicamente il “senso del limite” comunitario del vivere associato, in simbiosi con le risorse naturali del luogo, sia in merito alla cultura materiale che a quella spirituale e, quindi, culturale. In tale contesto, il concetto stesso di “economico” si poneva in termini di sussistenza della comunità: una lettura connaturatamente ecologica delle forme di civiltà.

Dimorare – così come nella riflessione novecentesca di Heidegger e Kahn – voleva dire condurre ad espressione l’essenza dello spazio, un rapporto essenziale dell’uomo con l’essere. Permettere all’anima dei luoghi di manifestarsi in chi viveva in quel dato posto, che la assorbiva in sé, rispettandola, rilanciandola in modo creativo; così l’abitare diveniva un atto sacro di corresponsione con l’energia spirituale della terra, che è la vita stessa. Questo è il riferimento fenomenologico, che è alla base delle riflessioni dei teorici del pensiero dell’ecologia del profondo, come ad esempio Arne Naess, quando parlava della natura come di un “valore in sé”, che l’uomo deve rispettare perché ne è parte. L’ecologia è tale solo se integrale, per cui non esiste una componente isolata, tutto è profondamente connesso: «la vita è fondamentalmente una», una stessa sostanza vitale abbraccia ogni forma di vita. Una spontanea capacità di autoprodursi e di auto evolvere (emergentismo) secondo un ordine proprio, che ci costituisce nel tessuto delle relazioni da cui dipende la vita dell’intero aggregato. Le società tradizionali avevano tre caratteristiche in comune: possedevano un rapporto intimo e cosciente con il loro luogo; erano stabili culture “sostenibili”, che si misuravano sulla durata di migliaia d’anni; avevano una intensa vita cerimoniale e rituale. Il nostro modello di civilizzazione è in palese contrasto con tutto ciò: idolatra nel progresso una razionalità strumentale e un tipo riduttivo di “praticità”, che ha disincantato ogni aspetto della cultura. Il processo di civilizzazione divora lo spazio ed è a sua volta divorata dal tempo, sino alla sincope finanziario-digitale del sincronico quantitativo, che è la realizzata contraffazione del kairos, il momento unico e irripetibile del qualitativo, celebrato in ogni rito mitopoietico.

Giovanni Sessa, nello stigmatizzare ogni dualismo, pone in risalto Ludwig Klages, il quale, rispetto all’oggetto – in cui la vita s’irrigidisce, perdendo il suo continuo mutare – vedeva appunto nell’immagine ciò che perpetua il divenire della physis. Ecco quindi che l’ecologia, nella quale, sin dall’etimo, risuona il logos come potere che divide l’essenza (la riduzione della natura a concetto e resa scientifica) dall’esistenza (l’emanazione del vivente), risulta inadeguata o funzionale come correlato fenomenico. Anche nel pensiero di Martin Heidegger, decostruttore peraltro della metafisica, l’autore rinviene un dualismo (autentico/inautentico, essere/ente), ricomponendo altresì con Goethe, Bruno, Spinoza e Fechner una natura muliebre in potenza di sé, in cui tutto è in relazione con tutto e, nella quale, i molti non sono che espressioni momentanee, «presenze attuali» del nulla di ente, del «ni-ente», della dynamis. Natura e cultura quindi, ma di conseguenza natura e tecnica, vanno colte in una relazione non oppositiva, non escludendosi reciprocamente, perché l’essere umano è natura, ma non solo natura. Un essere antropologicamente non specializzato, scriveva Arnold Gehlen, quindi proteso con lo strumento e capace di una intelligenza tanto adattiva e mimetica al biologico quanto intuitiva e simbolica [symballo (συμβάλλω), «mettere insieme, far coincidere»], essendo pienamente coinvolto nello slancio vitale della physis. Proprio per questo, nel momento in cui tale legame viene reciso [diabàllo (διαβάλλω), «separare»], ci troviamo di fronte a una radicale svolta ontologica, a un nuovo statuto assertivo della natura e dell’uomo, di cui personalmente rintracciamo, nell’incedere della quarta rivoluzione industriale, il dispiegato titanismo del transumano.

Giovanni Sessa, in tal senso, pone una possibile ricomposizione tra Orfeo e Prometeo. Questo perché il mondo greco, nella sua «chiaroscuralità» (in realtà, costitutiva nel pensiero di Martin Heidegger nella coppia Terra/Mondo) dà spazio agli opposti, in una loro sempre precaria eneantiodromia. Vanno evitati unilateralismi in merito, una ingenua arcadia naturalistica così come la «volontà di volontà» insita nella potenza illimitata della tecnologia. Il mito di Prometeo risulta a nostro avviso trasparente in merito: il risvolto negativo della tecnica consta nella sua autoreferenzialità, la sua capacità di incatenare l’uomo nell’illusione di emanciparlo, risiede nella sua autonomia meccanicistica, nel suo operare indipendentemente dal retto consiglio e dal buon uso della saggezza, che per il mito sono prerogative divine e per la successiva filosofia, prerogative della politica “regia” (Platone). Ciò non significa che la tecnica sia priva di ragione, ma semplicemente che la tecnica dispone solo di una razionalità strumentale che controlla l’idoneità di un mezzo a un fine, senza pronunciarsi sulla scelta dei fini. Questo pronunciamento spetta alla saggezza (phrònesis), che non è un dispositivo tecnico e perciò non rientra in quella ragione calcolante in cui la tecnica si esprime.

Il dominio di sé regna sulla “potenza” e dimora nell’essere, la potenza è costituente, mentre il potere è costituito, ma la “potenza” non è un fine a sé medesimo. Il potere della civilizzazione tecno-scientifica si configura con un pensiero unico funzionale oligarchico e tecnocratico segnato dal titanismo dello smisurato. Questa illimitatezza trova la sua illustrazione più tipica nella natura stessa del sistema capitalistico. La caratteristica fondamentale di questo sistema è in effetti il suo orientamento verso un’accumulazione senza fine, nel duplice senso del termine: processo che non si ferma mai e non ha altra finalità che la valorizzazione del capitale, sistema in cui qualsiasi surplus è usato per riprodursi ed auto-accrescersi. Tutto ciò che può essere d’ostacolo alla circolazione degli uomini e delle cose necessaria all’espansione planetaria del mercato dev’essere letteralmente sradicato. La logica di espansione del capitale non differisce granché dal processo di razionalizzazione del mondo che Heidegger chiama il gestell (impianto) o la macchinazione (machenschaft). Percepito come un oggetto privo di senso intrinseco, il mondo è interpretato come un fondo da sfruttare; è predisposto a divenire fonte di reddito e di profitto, ossia «valore» nel senso economico del termine. È questa illimitatezza nella propensione come nella pratica che fa del capitalismo un sistema basato sulla dismisura, sulla negazione di qualsiasi limite, preoccupato soltanto di produrre sempre più valore per accrescere e valorizzare sempre di più il capitale. Un totalitarismo (riduzione all’uno), che non è il dato dispotismo storico fondato sul terrore, sulla violenza e il partito unico, ma una forma di “mondializzazione” pervasiva condizionante con tratti distopici (società della sorveglianza) dove tutto è dentro, niente è fuori, il concavo si fa convesso e tutto quel che resiste sulla Terra viene eliminato nella deiezione dell’artificio. La potenza, di contro, è quindi da intendere come una “contestazione totale” al presente, la rimessa in forma del principio capace di cogliere l’essere nel divenire. Una coincidentia oppositorum metalogica, in cui la coppia luce/tenebre e tutti i contrari dialettici coincidono.

La physis eraclitea è polisemica, declina la natura propria di ogni ente e, dall’altro, il processo di apparizione, manifestazione, genesi, realizzazione e crescita di ogni essere.Nel sentimento sacrale ancestrale vi è un’idea di fondo, espressa dalla parola natura, per cui esiste un’insorgenza spontanea delle cose, un’apparizione frutto di questa spontaneità, pronta a dileguarsi appena si cerca di ridurla alla sua concretezza fenomenica. Questa problematica dominerà tutta la storia dell’idea di natura e nel creativo Rinascimento verrà espressa con estrema chiarezza da Marsilio Ficino, quando scriverà sull’artificiale e sul naturale: «Che cos’è l’arte umana? Una natura particolare che opera sulla materia dall’esterno. Che cos’è la natura? Un’arte che dà forma alla materia dall’interno». È come dire – con Friedrich Schelling nel Romanticismo – che la natura è spirito visibile, mentre lo spirito è natura invisibile, perché tutto ciò che vive è correlato. Il grande segreto della natura è la natura stessa, vale a dire la forza, la ragione invisibile, di cui il mondo visibile non è che la manifestazione esterna. È questa natura invisibile che con Eraclito e i presofisti «ama nascondersi», sottraendosi alle manipolazioni strumentali. La natura ha così un duplice aspetto: si mostra ai nostri sensi nello spettacolo ricco e variegato che ci offre il mondo vivente, ma al tempo stesso si ritira dietro l’apparenza, nella sua parte più essenziale, più sottile, più profonda. Non è con il sopruso, bensì con il ritmo e l’armonia persuasiva che Orfeo penetra i segreti della natura, rispettando l’essere degli enti, il mistero della loro esistenza.

«Contemplare l’universo con occhi d’artista», diceva Henry Bergson; questo significa non percepire più le cose da un punto di vista utilitaristico, selezionando unicamente ciò che attiene alla nostra azione sulle cose e divenendo così incapaci di vedere gli enti per come appaiono in sé, nella loro realtà e unità. Privilegiando questa percezione sensibile, il filosofo francese si riallacciava più o meno consapevolmente alla philosophia perennis e alla sapienzialità. Cogliere per intuizione analogica il tutto corrisponde a riprodurre il gesto fondamentale della natura, che genera le forme. Capire la forma significa intellettivamente riprodurre l’atto stesso col quale la natura crea quel modello (eidos). Goethe, nel descrivere gli archetipi della natura – che chiama Urphänomene, fenomeni originari -rimanda alleleggi fondamentali che presiedono in maniera generale ai movimenti naturali. Vi sono la polarità e l’ascensione, che ben si palesano nella crescita di una pianta; infatti, il doppio movimento della spiralità e della verticalità, che la caratterizza, risponde al ritmo fondamentale della natura tra differenziazione e funzione. Tramite lo sdoppiamento e la complementarità degli opposti, la natura giunge a manifestare una forma superiore di esistenza, che li riconcilia e trascende: la pianta archetipo di ogni vivente si avvolge con regola attorno a un asse centrale con una morfologia che riconduce alle leggi cardinali tridimensionali dello spazio e del suo ordine ellittico e sferico fondante. Nella complementarità del femminile e del maschile, l’inatteso estetico del fiore e della sostanza dei frutti, pongono l’ancestrale cosmogonico come coincidenza degli opposti.

Il paradosso contemporaneo, per cui esiste una retorica mondiale dedicata a salvare l’ambiente, ma non esiste una volontà politica per salvare la natura, è ideologico, filosofico e tecno-scientifico, riducendo a un ordinatore economico calcolante l’essere vivente. Se dici natura non puoi prescindere dal riferimento alla natura umana, devi fare i conti con lei, a partire dalla nascita. Non si può difendere la natura delle piante, dell’aria, dell’acqua, degli animali e non difendere la natura umana. Di contro, l’adattamento antropologico del processo di civilizzazione oggi pretende, sull’altare del primato scientifico, il sacrificio della natura umana. Come è possibile difendere l’integrità genetica di un vegetale, ma accettare la modificazione eugenetica dell’essere umano? Quale essere vivente è quello rivendicato dall’ideologia della fluidità di genere, che si sottrae al dato di realtà cromosomico e impone un individuo che vuole essere ciò che desidera e non ciò che la natura ha espresso? Se fino ad ora, nell’impeto industriale, l’uomo è stato contro la natura, d’ora in poi sarà contro la propria natura. Se quindi la natura deve essere preservata non è per mero conservatorismo intergenerazionale del presente, ma perché il suo principio e la sua esistenza sono intrinseci a quella dell’essere umano e rivendica un dato di realtà rivoluzionario (ritorno al principio) avverso all’artificio, cosicché la fedeltà che noi dobbiamo al nostro essere sia il vertice più elevato di quello che dobbiamo alla natura in quanto tale.

Eduardo Zarelli

Presentazione del saggio a Milano, lunedì 30 ottobre 2023, alle ore 18.00. Interverranno Giovanni Sessa ed il nostro Andrea Scarabelli

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