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Filosofia

Carl Gustav Jung, «Sincronicità come principio di connessioni acausali»

Recensione a:
Carl Gustav Jung
Sincronicità come principio di connessioni acausali
(Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammanhänge, 1952)
Antologia ragionata con testo tedesco a fronte
A cura di Lucia Guerrisi
Traduzione e Nota editoriale di Vincenzo Cicero
ELS La Scuola / Editrice Morcelliana, 2018
Pagine 240
in Diorama Letterario – numero 376 – Novembre/Dicembre 2023
pagine 39-40

Rispetto al dogmatismo monocorde della psicoanalisi freudiana, la psicologia dinamica – o analitica – di Carl Gustav Jung (1875-1961) non scambia le funzioni della mente per realtà assolute e per strutture empiriche. Delinea invece un quadro mosso e profondo dell’unità psicosomatica che siamo. L’idea di dinamismo psichico, infatti, non si fonda «sul bipolarismo coscienza-inconscio né sull’antitesi mentecorpo, con ciò superando il dualismo psicofisico e rifiutando una originaria separazione tra psiche e corpo, così come tra ordine culturale e ordine naturale».1

Per Jung la mente è un evento plurale, intersoggettivo, cangiante. È un dispositivo di comunicazione dentro il quale si crea una realtà nomade e complessa al cui interno prevalgono di volta in volta determinate sensazioni, credenze, sentimenti, poiché la vita psichica è frutto di un dinamismo senza posa tra elementi molto diversi. La salute mentale consiste nella accettazione e gestione della pluralità che ci costituisce, mentre la malattia mentale deriva in gran parte dal prevalere di una sola istanza su tutte le altre.

Razionalità e irrazionalità sono categorie insufficienti – se opposte l’una all’altra – a cogliere il flusso potente e antico della vita psichica, l’«ordito, misterioso e ignoto, in cui un significato porta a un altro, in cui tutto è distinto e a un tempo collegato», tanto che alla coscienza come funzione che crea le differenze «Jung correla l’inconscio come tendenza psichica all’unificazione»2. Vige una dinamica di identità e differenza tra, da una parte, le capacità logiche e formali di raffreddamento del vissuto e, dall’altra, la potenza dei desideri, dell’inspiegabile e dell’immotivato. Queste strutture pulsano in un movimento prima di tutto emotivo, poiché è proprio la ragione a operare sull’inconscio e sulle sue passioni ed è la passione ad offrire alla razionalità la capacità di agire nel tessuto quotidiano della vita.

Anche per questo né lo psicologo né la psicologia possono tirarsi fuori dalla dimensione dell’analisi, che non soltanto le investe in pieno ma consente la loro stessa esistenza. Al fondo di ogni psicologia sta per Jung una antropologia di quel soggetto concreto che è il rapporto tra analizzante e analizzato. Il metodo junghiano è, in questo, interamente socratico e permette di raggiungere risultati fecondi e significativi al di là della sola psicoterapia, toccando alcuni dei nuclei fondamentali della vita collettiva, mediante il dispositivo che Jung chiama «archetipo».

Gli archetipi sono delle strutture innate che organizzano le rappresentazioni. Non sono quindi degli enti, delle cose, ma costituiscono una dinamica che non si ferma mai: «mentre l’inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà. L’inconscio personale consiste soprattutto di “complessi”; il contenuto dell’inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da “archetipi”»3. Il rapporto tra inconscio collettivo e archetipi è una delle radici più ricche e più complesse dell’esistenza comunitaria e individuale.

Un concetto che rappresenta un esempio concreto di tale dinamica/struttura è quello di sincronicità. Il libro che ne parla conferma quanto sia profondo, inquietante e discutibile tutto il pensiero di Jung. Profondo perché il concetto/principio di sincronicità è appunto legato a quello di Archetipo, essendo una delle strutture della mente e della vita che vanno al di là dei luoghi, dei tempi, dei singoli e delle circostanze e dalle quali gorgogliano le mentalità, i principi, i sogni, i racconti, le paure ancestrali, i desideri insopprimibili e costanti. Inquietante perché la complessità della natura e del corpo-mente appare sempre assai più ricca e rischiosa di quanto le prospettive soltanto razionalistiche sostengano. Discutibile perché, da un lato, lo studioso esprime delle riserve nei confronti dei metodi statistici delle scienze empiriche e formula una peculiare difesa della “superstizione“ – «è un’esperienza frequente che opinioni cosiddette superstiziose contengano un nucleo di verità che merita d’esser saputo» –; dall’altro, anche Jung tenta di ancorare i propri risultati a quelli della fisica, in particolare della meccanica quantistica, che è stata sin dall’inizio – e sempre più va diventando – una specie di sigillo di garanzia per troppe prospettive a volte ambiziose e a volte confuse.

E infatti Jung scrive che «i risultati della fisica moderna hanno prodotto, com’è noto, una modificazione significativa della nostra immagine scientifico-naturale del mondo, avendo scosso la validità assoluta delle leggi naturali e tramutata in una validità relativa. Le leggi naturali sono verità statistiche, cioè sono valide, per così dire, senza eccezioni solo là dove si tratta di grandezze cosiddette macrofisiche». Il che è vero, naturalmente, ma il riferimento alla teoria dei quanti non è necessario per chi intenda attingere alle forze e agli archetipi più profondi e più nascosti dello “spirito” e della “materia”.

Che cosa intende dunque Jung con Synchronizität / Sincronicità? Anzitutto, essa non è né sincronismo (Synchronismus) né sincronia (Synchronie) Sincronismo è «la mera contemporaneità di due eventi»; sincronia è la reciproca relazione causale tra due eventi. La psicologia analitica si pone invece ed esplicitamente al di là dei principi fondamentali della filosofia e delle scienze della natura: spazio, tempo, causalità, e quindi ritiene quest’ultimo – la causalità – un caso circoscritto e particolare di una struttura assai più ampia e complessa.

Anche Jung, infatti, come tanti altri prima e dopo di lui, ritiene che «in sé spazio e tempo non hanno alcuna sussistenza», siano «concetti ipotizzati solo dall’attività discriminante della coscienza, e costituiscono le coordinate indispensabili alla descrizione del comportamento di corpi in moto»; aggiunge poi che, qualsiasi struttura abbiano, spazio e tempo «sono senz’altro un’unica e medesima cosa». In generale, Jung distingue tra un concetto di tempo quantitativo, fisico e convenzionale, legato strettamente allo spazio, e un concetto di tempo qualitativo, simbolico, ancestrale e sostanzialmente numinoso/divino. «Potremmo anche nominarli rispettivamente tempo-segno e tempo-simbolo»4.

Per quanto riguarda il terzo concetto/principio, la causalità, a esso Jung rivolge riserve più radicali e articolate, scrivendo che «per quanto questo possa apparire incomprensibile, alla fine si è comunque costretti a ipotizzare che ci sia nell’inconscio qualcosa come un sapere a priori o meglio una “presenza” a priori di eventi sprovvista di qualsiasi fondamento causale. In ogni caso il nostro concetto di causalità si dimostra inadatto alla spiegazione dei fatti».

Come si vede, è quest’ultimo punto il nucleo del problema. La sincronicità, infatti, viene presentata sin dal titolo come «principio di connessioni acausali» e come «soltanto un caso particolare dell’universale coordinatezza acausale» (il corsivo è di Jung). La sua struttura/definizione sarebbe questa:
«Il fenomeno di sincronicità consiste dunque di due fattori: un’immagine inconscia viene alla coscienza direttamente (alla lettera) o indirettamente (per simbolo o allusione) come sogno, trovata o presentimento; 2 ) una situazione fattuale oggettiva coincide con questo contenuto. Ci si può meravigliare tanto del primo quanto del secondo fattore».

Sì, ci si può meravigliare, anche perché dimostrare un simile principio è assai difficile, per la stessa definizione che se ne dà. Jung utilizza a questo fine buona parte della sua strumentazione di psicologo esoterico: sogni, oroscopi, mantica e specialmente I Ching, uno dei libri/metodi più antichi dell’umanità. L’intenzione di rompere i confini metodologici e culturali è comunque condivisibile, specialmente quando si tratta di andare oltre i dualismi. Un’espressione efficace di tale intenzione è quella che traspare nelle parole del filosofo cinese, contemporaneo di Aristotele, Chuang-Tzu (Zhuāngzǐ), il cui concetto del Tao indica anche «lo stato in cui Io e non-Io non formano più un’opposizione» e questo «si chiama cardine del Senso (Tao)» (Il vero libro della terra meridionale dei fiori, libro II).

Tao è il Senso dell’intero e dunque di ogni ente, e vento e processo. Jung accosta l’olismo della cultura cinese all’olismo della cultura greca almeno sino a Eraclito: «Per noi i particolari contano in sé e per sé: per lo spirito orientale essi integrano sempre un’immagine totale. […] In questo contesto rientra la dottrina filosofico-naturale della correspondentia, in particolare la concezione – già propria dell’antichità – della simpatia di tutte le cose (συμπάθεια τῶν ὄλον). Il principio universale si trova anche nella parte piu’ piccola, la quale perciò è in accordo con il tutto». Al Tao come Senso si coniuga, platonicamente, il Numero, che per Jung è insieme una realtà che viene scoperta e una struttura che viene inventata. E in questo il numero sarebbe simile agli archetipi, in quanto entrambi forme a priori della rappresentazione. E come gli archetipi, anche i numeri sarebbero una realtà numinosa: «l’inconscio impiega il numero come fattore ordinatore».

La sincronicità tra eventi che non abbiano tra di loro una percepibile relazione causale appare dunque come forma ed espressione del Tao «indifferenziato, anteriore alla genesi di cielo e terra, calmo, vuoto, dal moto circolare, madre dell’universo; identico al Nulla, in quanto antitetico alla realtà; scopo inapparente e ordinatore del mondo». Qualcosa di simile all’ἄπειρον di Anassimandro.

Coincidenza e analogia, questa tra l’Oriente eAnassimandro, che rappresentano un buon esempio di archetipo.

Aberto Giovanni Biuso

Note:

1 Paolo Francesco Pieri, Introduzione a Jung, Laterza, Roma-Bari
2003, pag. 16.

2 Ivi, pp. 12 e 114.

3 Carl Gustav Jung, Il concetto di inconscio collettivo (1936), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1965 sgg, vol. 9, tomo 1, p. 43.

4 Lucia Guerrisi a p. 11 della sua Introduzione al volume.


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