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Filosofia Storia

Ripensare la fine del Rinascimento

Quando tutto ha iniziato a degenerare, filosoficamente e spiritualmente parlando? Il dibattito è aperto da così tanto tempo che arriviamo quasi a pensare che le cose siano sempre andate storte. Jean Montalte, membro dell’Institut Iliade (gruppo Léonidas), non è di questo avviso. Si impegna in una rilettura ciclica della storia europea, alla luce della filosofia di Vico. Siamo oggi nell’era degli dei, degli eroi e dell’uomo – se non dell’ultimo uomo? Un’analisi ambiziosa e stimolante, che va contro le interpretazioni storiche comunemente accettate del Rinascimento, un’analisi basata su numerosi testi, tra cui quello di Nicolas Berdjaev, «Nuovo Medioevo», a sua volta preceduto da «La fin de la renaissance». Ecco una riflessione che farà discutere.

Jean Montalte

Questo articolo si sforza di tracciare, a grandi linee, filosofie e correnti di pensiero complesse. Ogni paragrafo richiederebbe uno sviluppo specifico a sé stante. Non è questo lo scopo di questo testo, che vuole essere sintetico e non può sostituire lo studio approfondito delle correnti trattate. La prospettiva di lungo periodo e di un ampio quadro storico accentua la necessità di un ulteriore approfondimento e studio delle opere citate in tutto il testo.

La sensazione di vivere un’epoca crepuscolare per la civiltà europea è stata condivisa da pensatori tanto diversi quanto prestigiosi: Paul Valéry, Frédéric Nietzsche, Oswald Spengler, Marcel De Corte, Nicolas Berdjaev, e, più recentemente, Jean-François Mattéi. Hegel, in La fenomenologia dello spirito, scriveva: «La frivolezza, così come la noia, che si sedimenta in ciò che esiste, il presentimento vago e indeterminato di qualcosa di sconosciuto, sono i prodromi di qualcos’altro che è in divenire».1

Poco dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, il filosofo russo Nicolas Berdjaev affermò che questa crisi della cultura annunciava la fine del Rinascimento, degli ideali che ne erano derivati e del fallimento dell’umanesimo antropocentrico. Il superamento di questa crisi poteva essere raggiunto, secondo lui, solo attraverso il ricorso ai principi spirituali che avevano animato e guidato l’esistenza dell’uomo medievale, per realizzare quello che egli chiamava il «nuovo Medioevo». Questa osservazione di una fine e questo desiderio di resurrezione riecheggiano la filosofia di Vico (filosofo italiano del XVIII secolo) che individuava tre cicli successivi nella storia di ogni civiltà: l’età degli Dei, l’età degli eroi e l’età dell’uomo.

Per quanto riguarda il ciclo storico di cui ci occupiamo, cioè la civiltà cristiana occidentale, l’età degli Dei corrisponde ai primi secoli di evangelizzazione che seguirono la predicazione di Cristo, l’elaborazione dottrinale della fede cristiana da parte dei Padri della Chiesa e i primi concili sotto l’Impero Romano; l’età degli eroi corrisponde all’epoca medievale, alla cavalleria, al ciclo di Artù, alle Crociate dove fede e virtù della forza vanno di pari passo; infine l’età dell’uomo è inaugurata dal Rinascimento – «il massacro del Medioevo da parte degli studiosi borghesi del Rinascimento», nelle parole di Léon Bloy – col quale si ritiene che l’anti-umanesimo della postmodernità (Michel Foucault), della decostruzione (da cui la farsa dell’anti-specismo), annunci la fine di tale ciclo storico.

Jean-François Mattéi, in L’Homme dévasté, ha descritto l’agonia dell’umanesimo filosofico. In sostanza, in una presunta discendenza nietzscheana, Michel Foucault riteneva che al cadavere di Dio non potesse che seguire il cadavere dell’Uomo. Cosa c’è di più normale? Sartre non diceva che non può esistere la natura umana poiché non esiste un Dio che la concepisca?

Morte di Dio, morte dell’Uomo

La morte della figura simbolica dell’uomo non poteva che essere funesta e significare la vittoria definitiva del nichilismo europeo profetizzato da Nietzsche. Va detto che Nietzsche distingue due aspetti del nichilismo: l’uno, attivo, segno di un aumento della potenza e della forza; l’altro, passivo, segno di un declino e di un indebolimento. La decostruzione dell’uomo può anche benissimo rinviare alla fine di quell’età dell’uomo di cui parla Vico e, se seguiamo il pensiero di quest’ultimo, annunciare un ricorso, cioè un ritorno dell’età eroica al termine della decomposizione dell’umanesimo, quello dell’ultimo uomo di Nietzsche che ha perso ogni centro di gravità, ogni orientamento, che non sa più far nascere una stella. Maurras pensava che il meccanismo della storia fosse eroico…

Nei secoli XV e XVI si è prodotta una rottura in seno alla civiltà europea che distrusse la sua unità. Due movimenti spirituali inaugurarono il mondo moderno, i quali, sebbene antagonisti, disgregarono il Cristianesimo medievale: il Rinascimento Umanista e la Riforma Protestante. Se il Rinascimento trae la sua ispirazione dalla fonte antica rompendo con la sovranità intellettuale della teologia scolastica per realizzare una liberazione, o autonomia, del sapere profano rispetto alla sacra doctrina, la Riforma opera una rottura ancora più radicale. In effetti, Lutero non si ribellò solo contro l’autorità della Chiesa e della teologia medievale, ma anche contro la ragione stessa. Questa «puttana», secondo la sua stessa espressione. Insomma, il protestantesimo protesta, è puramente negativo. Il filosofo Pierre Bayle, interrogato sulla sua filosofia dal cardinale de Polignac, gli diede questa risposta: «Sono protestante nel senso pieno del termine; protesto contro ogni verità»2. La politica della tabula rasa più assoluta… Il filosofo Berdjaev riassume così questa opposizione: «Il Rinascimento non fu né rivolta né protesta, fu creazione. Qui sta la bellezza del Rinascimento, qui sta il suo significato eterno. La Riforma fu più rivolta e protesta che creazione religiosa, era diretta contro la continuità della tradizione religiosa».3

Se la Riforma e il Rinascimento presentano fisionomie nettamente distinte (pessimismo fondamentale nei confronti dell’uomo irrimediabilmente corrotto dal peccato originale da un lato; esaltazione dell’uomo, della sua libertà e delle sue forze creatrici dall’altro), tuttavia entrambi hanno contribuito a far nascere il mondo moderno e capitalista che noi conosciamo. Sono ben note le analisi di Max Weber riguardo alle origini protestanti del capitalismo. Vorremmo mostrare come e in che modo il ruolo svolto da quella che il filosofo marxista eterodosso Ernst Bloch chiamava filosofia rinascimentale sia stato decisivo nell’apparizione di una nuova figura umana consustanziale al mondo tecnicista che è il nostro: l’homo faber.

L’homo faber

La filosofia medioevale – il cui spirito è stato illustrato da Étienne Gilson – accordava, in continuità con la civiltà ellenica, un primato alla vita contemplativa su quella pratica. La vita contemplativa era considerata più adatta a condurre una vita buona, a consentire la realizzazione spirituale e a conquistare le vette più alte dell’essere. Aristotele lo insegna nella sua Etica Nicomachea; e l’epoca medievale, di tipo sacrale, onorerà il monaco come l’uomo più compiuto.

È tutto un altro tipo di sentimento che tenderà a predominare a partire dal Rinascimento e che perdura fino ai giorni nostri. L’architetto Alberti esporrà la seguente formula che bene esprime questo cambio di paradigma: «L’uomo è creato per agire, l’utilità è il suo destino». Ernst Bloch identifica il Rinascimento con lo sbocciare degli inizi del capitalismo, esso stesso associato all’apparizione dell’homo faber. Ernst Bloch non nasconde l’entusiasmo che prova per le correnti filosofiche che hanno consentito o accompagnato l’emergere del capitalismo, poiché le concezioni marxista e capitalista sono unite in molti aspetti, a cominciare dal materialismo e dal demone di un’economia tiranna, per dirla con Julius Evola.

Ecco cosa scrive Ernst Bloch: «Attività è la nuova parola d’ordine. L’uomo nuovo lavora, non si vergogna più di lavorare. Il divieto che la nobiltà aveva imposto al lavoro, considerato degradante e disonorevole, viene revocato; si assiste alla nascita dell’homo faber che, senza avere piena consapevolezza del cambiamento avvenuto, trasforma il mondo attraverso la sua attività. L’economia degli inizi del capitalismo si impone risolutamente, la borghesia urbana alleata con i reali che tendono all’assolutismo pone fine al feudalesimo cavalleresco»4Aggiunge: «Il capitale commerciale adotta un atteggiamento più intraprendente, i Medici creano a Firenze la prima banca. Le imprese manifatturiere si affermano accanto e contro le imprese artigiane; si cominciano a calcolare i costi di trasporto, poiché non si tratta più solo di rifornire il mercato locale ma di spedire i propri prodotti in lungo e in largo. L’economia di mercato degli inizi del capitalismo fa la sua comparsa in Italia; fu in Italia che per la prima volta furono rimossi i vincoli economici dell’epoca feudale; è dall’Italia che è partito il Rinascimento. Esso ha apportato due nuovi fatti: la coscienza dell’individuo così come si è sviluppata a partire dall’economia capitalista individuale, di contro al mercato chiuso delle corporazioni; l’impressione di immensità che ha rimpiazzato l’immagine del mondo artificiale e chiuso della società feudale e teologica».5

Non è tanto il dominio dell’agire a soppiantare quello della contemplazione. L’intelligibile e l’agibile vengono sostituiti dal fattibile. È la ragione poetica nel senso aristotelico del termine, cioè fabbricante, a occupare il centro della scena, a scapito della ragione speculativa e morale. Il Rinascimento italiano è comunemente e quasi esclusivamente associato a una rinascita delle arti e delle lettere; ma, senza essere falsa, questa visione è parziale. Il dominio del fare, talvolta fino all’artificiosità, conquista un impero quasi incontrastato, tanto nelle discipline artistiche che in quelle scientifiche, in quelle tecniche e in quelle commerciali. Il grande affare è creare, costruire e inventare. E’ la concezione tradizionale della conoscenza come sottomissione al reale e come ordinamento ricettivo dell’essere ad essere abolita. Il cartesianesimo e il kantismo avrebbero poi radicalizzato questa tendenza in quella che verrà definita come la svolta soggettiva della modernità. Hutten, nella sua esaltazione, esclama: «La scienza prospera, le menti si scontrano frontalmente, è un piacere vivere!»6 Si tratta della scienza quantitativa, quella che nasce in quel momento, enunciata in un linguaggio logico-matematico, che non più ha come oggetto l’essere stesso delle cose. Einstein affermerà ne L’evoluzione della fisica: «I concetti fisici sono libere creazioni della mente umana e non sono, come si potrebbe credere, determinati unicamente dal mondo esterno».7 E Max Planck: «La chiaroveggenza dello scienziato deriva unicamente dal fatto che questo mondo [della fisica] non è altro che un’immagine del mondo reale creata dalla mente umana, la quale, per questa ragione, ne ha ovviamente una conoscenza perfetta e la domina nei suoi dettagli».8

Individualismo

Con il Rinascimento sorge l’individuo. Nel mondo tradizionale predomina quella che Julius Evola definisce l’impersonalità attiva, la cancellazione del sé di fronte alle qualità intrinseche dell’opera da produrre. I monaci certosini hanno conservato questa mentalità anche oggi firmando i loro motti spirituali con questa unica iscrizione: «Un certosino».

Durante il Rinascimento ci si comincia ad interessare agli artisti e ai loro nomi. Ernst Bloch rileva che «l’invenzione del violino, il cui livello è alto, segna la vittoria dell’individuo, vittoria che si traduce, sul piano economico, nella figura dell’imprenditore».9. È significativo che il filosofo medievale San Tommaso d’Aquino ponesse nella materia – più precisamente nella materia designata (materia signata) – il principio di individuazione (ciò che rende un individuo questo e non un altro). Di contro, la nozione di persona è così definita da Boezio: «sostanza individuale di natura razionale». La persona si distingue per la ragione, facoltà spirituale; l’individuo attraverso la carne e le ossa, elementi materiali. I filosofi medievali enfatizzavano la persona, non l’individuo, perché l’individualismo è perfettamente incompatibile con la visione olistica – che non va confusa con il collettivismo – che era la loro.

Antropocentrismo

Il fulcro del Rinascimento è l’uomo. Molto più che eliocentrica, quest’epoca fu antropocentrica. L’uomo si sente stanco delle esigenze spirituali che gli pone la società medievale, tutta dedita alla conquista del Cielo. L’uomo del Rinascimento, distaccandosi dalle mete trascendenti fissate dalla tradizione cristiana teocentrica, è determinato a conquistare il terreno, a compiacersi delle ricchezze che la natura gli elargisce, a congedare un’ascesi i cui rigori divengono per lui insopportabili. Anche in teologia avviene questo spostamento del centro di gravità. Luis de Molina, il celebre teologo spagnolo del XVI secolo, inventò quindi una nuova teoria della prescienza divina e del rapporto tra Grazia e Volontà creata. Il molinismo attribuisce alla creatura umana una parte di iniziativa primaria nell’ordine del bene e della salvezza, il che ci riporta a una forma edulcorata di pelagianesimo. «Fino ad allora», scrive Jacques Maritain, «il cristiano cattolico aveva pensato di avere sì l’iniziativa delle sue buone azioni, e delle buone azioni nel loro insieme, ma un’iniziativa secondaria, non primaria. Solo Dio ha l’iniziativa primaria, e le nostre buone azioni appartengono in tutto a Dio come causa prima e a noi come libera causa secondaria».10 L’uomo europeo del Rinascimento sembra volere regnare su larghe aree del suo essere, così come sulla natura. Questo tipo di effusione non è esente da vertigini e l’idea dell’infinito gli fornirà qualcosa che farà stordire la sua mente e i suoi sensi.

 L’infinito

Fino ad allora, la cosmologia tradizionale aveva ereditato dalla Grecia la nozione di un Cosmo finito. L’idea di associare infinito e perfezione veniva respinta dalla mentalità ellenica. Il mondo classico riposa sul senso di un ordine finito e misurato; limiti e forme ne regolano la bellezza, come le virtù che consistono in una mediazione (il giusto mezzo) tra eccesso e difetto, secondo Aristotele. Il sistema di Tolomeo è minato dalla rivoluzione copernicana; Giordano Bruno riprese da Nicola di Cusano l’idea di un universo infinito; la rappresentazione di un Cosmo ordinato e chiuso svanisce. «Agli albori del pensiero greco», ci racconta Albert Camus, «Eraclito immaginava già che la giustizia ponesse dei limiti allo stesso universo fisico. Il Sole non supererà i suoi limiti, altrimenti le Erinni che custodiscono la giustizia sapranno punirlo».11 L’infinito che prima apparteneva solo a Dio, adesso investe l’universo fisico, prima di svanire, molto più tardi – nei Romantici – nell’universo morale e poetico. Sta emergendo una delle fonti di quella che Dominique Venner chiamava la metafisica dell’illimitato. È dalle rovine dell’edificio medievale crollato che fiorì questa metafisica. Berdjaev afferma che «l’uomo perde le sue forme, i suoi limiti, è indifeso contro la malvagia eternità del mondo caotico».12 Prima di spaventare Pascal, gli spazi infiniti galvanizzavano la frenetica volontà di potenza dell’uomo del Rinascimento.

I prodromi del meccanicismo

Se Cartesio voleva, attraverso il suo metodo, rendere l’uomo «padrone e possessore della natura», il Rinascimento fornì le condizioni di per rendere ciò possibile. Il Rinascimento fu fertile di innovazioni tecniche, il XVI secolo fu prodigiosamente inventivo. Simone Weil ha visto nelle vittorie dell’uomo moderno sull’universo fisico il risultato di una preghiera esaudita: l’uomo, avendo concentrato la sua attenzione sulla materia, ha trovato i suoi desideri esauditi dalla materia. Lo storico Georges Bordonove ha fatto un inventario non esaustivo delle conquiste tecniche di questo periodo: «Si razionalizza lo sfruttamento delle miniere mediante l’uso di legname e di carrelli su rotaie; si migliora l’affinazione dei metalli e si scoprono i laminatoi; si inventa anche la pialla per i falegnami; si fabbricano gli aghi in serie; si scopre la ricetta per il vetro trasparente; i tintori utilizzano cocciniglia e legni esotici; gli agricoltori iniziano a coltivare meloni, carciofi, barbabietole e carote, ribes e lamponi; i produttori tessili godono di una prosperità senza precedenti; troviamo Leonardo da Vinci a immaginare un pendolo per la trattura della seta; i tedeschi inventarono la molla a spirale, fabbricarono i primi orologi e le «uova di Norimberga», che furono i primi prototipi. Ma questo progresso ha avuto anche il suo rovescio: la qualità della polvere da sparo e dei cannoni è migliorata; vengono inventate armi mortali; vengono fabbricati archibugi e altre macchine per uccidere. Per ottenere una loro «resa» migliore ci si preoccupa della balistica. Lo stesso da Vinci e Dürer si occuparono dei carri armati e delle fortificazioni».13

Questo secolo avrebbe fatto fremere di paura lo stoico Seneca, per il quale esiste «una fondamentale incompatibilità tra saggezza e tecnica». Se questa affermazione ci sembra esagerata, non si può negare che la tecnologia insita nella vita moderna abbia ampliato le frontiere dell’umanità. Ciò ha portato Bernanos a dire che un mondo vinto grazie alla tecnologia era perduto a causa della libertà. Attribuire al Rinascimento il meccanismo dello «stupido XIX secolo» sarebbe eccessivo, poiché in quest’ultimo secolo esiste una dialettica di autonegazione del Rinascimento, secondo l’espressione di Berdjaev, e quell’effervescenza vitale non va confusa con il suo processo di meccanizzazione mortale. Tuttavia, l’uno è impossibile senza l’altro, anche se quest’ultimo si realizza attraverso il tradimento del primo. Berdjaev scrive in La fine del Rinascimento: «Si rendevano conto che la conseguenza del loro moderno sentimento della vita, della loro rottura con le profondità spirituali e il centro spirituale del Medioevo, delle loro imprese creative, sarebbe stato il XIX secolo, con le sue macchine, con il suo materialismo e il suo positivismo, con il socialismo e l’anarchismo, con l’esaurimento dell’energia creativa spirituale? Leonardo, forse l’artista più straordinario al mondo, è colpevole del meccanicismo e della materializzazione della nostra vita, della sua disanimazione, della perdita del suo significato supremo? Lui stesso non sapeva cosa stava preparando».14 E ancora: «Il meccanicismo della vita distrugge la gioia del Rinascimento e rende impossibile ogni sovrabbondanza creativa della vita. La macchina uccide il Rinascimento. La cultura piena di simbolismo sacro muore».15

Il Rinascimento, che è stato vita a profusione, viene assorbito in un mondo disincarnato, devitalizzato e meccanizzato, che lo priva del suo movimento originario, ma che nondimeno esso ha contribuito a generare. La dea Nemesis che punisce gli eccessi non risparmia la sua crudeltà. Quando l’uomo arriva a ignorare i suoi limiti, gli arti del suo essere si spezzano, ed esso resiste solo grazie alle protesi tecniche che ha creato. Il transumanesimo saprà trarre i suoi frutti dai guai gettati nell’animo umano, per completarne la distruzione. L’uomo tende a meccanizzarsi man mano che si disincarna, compensando il suo vuoto con il virtuale e la tecnologia di cui diventa schiavo. Lui, che è sempre stato un animale industrioso, sta per diventare un animale industriale; da produttore diventa prodotto: miserabile trasmutazione alchemica! Il paragone del funesto Pierre Bergé tra le braccia di un operaio e il grembo di una madre («Affittare il proprio grembo per fare un figlio o affittare le proprie braccia per lavorare in fabbrica, che differenza c’è?») non è un incidente né un eccentrico errore grossolano, ma è espressione dello spirito dei tempi. Il filosofo postmoderno Gilles Deleuze non ha forse scritto: «Eppure sono macchine, per niente metaforicamente»16, descrivendo le operazioni organiche dell’uomo nel vocabolario sulla latrina?

Dualismo

Una disarmonia profonda colpisce l’uomo del Rinascimento. È immerso in un’atmosfera radicalmente distinta da quella dell’uomo medievale, la cui visione del mondo è strutturata in maniera determinata dall’aristotelismo cristiano. L’uomo medievale è unitario, non divide analiticamente il suo essere tra l’anima da una parte e il corpo dall’altra, il microcosmo e il macrocosmo. La sua visione delle cose è sintetica. Per usare una frase di Péguy, lo spirituale è carnale. L’ilemorfismo aristotelico insegna che l’uomo è un composto di anima e corpo, due sostanze parziali che, unite, formano un’unità ontologica. A partire da Cartesio, l’unione dell’anima e del corpo immerge i filosofi in aporie insolubili, poiché egli le definisce come due sostanze complete in sé. Se si avvertono come tali, è difficile vedere la necessità di una insieme all’altra. Ciò darà origine a due movimenti opposti: l’idealismo di Berkeley e il materialismo di La Mettrie. Il dualismo presuppone l’esistenza di due mondi distinti che coesistono senza compenetrarsi: il mondo intelligibile o cielo delle Idee, perfettamente armonico, e il mondo sensibile, che è degradato e dove regna la disarmonia. Dualismo che, a seconda del mondo con cui scegliamo di essere d’accordo, può generare atteggiamenti politici diametralmente opposti. Opposizione che ci riporta alla battaglia quasi mitologica tra i Figli della Terra e gli Amici delle Forme messa in scena da Platone ne Il Sofista.

Tra i pensatori dell’epoca, due ci sembrano collocarsi in queste alternative: Nicolò Machiavelli e Tommaso Campanella. Da una parte, lo spirito pragmatico, perfino cinico, le tecniche della dura praxis politica, applicate a uomini concreti quaggiù; dall’altro, l’idealismo politico-teologico di un’ipotetica monarchia universale. A proposito dell’idealismo: immolarsi a un’idea è di volta in volta l’onore e la rovina dell’uomo, il sacrificio assurdo e idolatrico a false credenze o l’assunzione di un’anima verso ciò che la trascende. I moderni potranno combinare questi approcci unendo, nelle parole di Montaigne, «opinioni sovracelesti e morale sotterranea». I Figli della Terra della nostra epoca, applicando un machiavellismo di fatto, più volgare di quello originario, brandiscono ad ogni passo i principi immortali del 1789, i valori della Repubblica, un utopismo egualitario e globalista che non ha alcunché da invidiare alle fantasticherie utopistiche dell’autore de La Monarchia del Messia, a parte la grandezza di Campanella.

La postmodernità: svelamento del fallimento del Rinascimento

L’uomo concepito come fondamento di sé stesso si è esaurito nel ripudiare ogni trascendenza. All’alba del Rinascimento, le forze creative dell’uomo europeo sembravano decuplicarsi e prendere il potere. Man mano che la modernità approfondiva il suo allontanamento dalla Tradizione, quest’ultima emergeva da fonti antiche rianimate, secondo uno spirito nuovo, dalle fonti rinascimentali e medievali. Tuttavia Berdjaev ci dice: «L’uomo europeo moderno deve vivere secondo principi antichi e medievali, altrimenti si esaurisce, si devasta e cade». L’anti-umanesimo di Foucault, che è un sintomo dello stato della cultura moderna generato dall’umanesimo classico del Rinascimento, ha avuto dei predecessori in Nietzsche e Marx, sebbene quest’ultimo, del tutto a torto, dicesse di rifarsi all’umanesimo. Nietzsche è stanco di ciò che è «umano, troppo umano». Predica l’ipotetico avvento del Superuomo. L’uomo deve porsi mete sovrumane, dirigere lo sguardo verso l’alto; le vette sembrano essenziali alla sua poetica. Qui l’immagine dell’uomo concreto agonizza. Marx percepisce l’individualità umana come l’emanazione dello spirito borghese. Deve essere superata fondendosi nel collettivismo e producendo un essere generico svincolato dal sentimento alienante dell’avere. Il superuomo nietzscheano e l’essere generico marxiano sono due sostituti del Dio perduto e due modi di superare l’uomo. È certo che l’uomo deve superare sé stesso; è certo, di fronte alle minacce che gravano oggi sulla sua stessa umanità e su ciò che ne è alla base (identità sessuali, nazionali, culturali, religiose, etniche, ecc.), che esso deve essere preservato. Il che ci riporta al concetto di misura. Non è certo sfuggendo alle misure vive che governano il suo essere che l’uomo raggiungerà la sua realizzazione. L’avidità e la febbre che ci spingono a sospirare contro i giusti limiti del nostro potere vanno tenute a freno. In caso contrario, la vita e i suoi intoppi ci insegneranno il senso del limite e della temperanza. Il glorioso impero napoleonico – quel Napoleone che Nietzsche designava come la sintesi dell’inumano e del sovrumano – non è forse finito nel disastro di Waterloo? E fu Talleyrand, per il quale «tutto ciò che è eccessivo è insignificante», a permettere alla Francia, al Congresso di Vienna, di non essere smembrata e di conservare la sua voce nel coro delle nazioni europee.

Jean-François Mattéi ha scritto in L’Homme dévasté: «Rémi Brague, in Le Propre de l’homme, metteva in luce l’incapacità dell’umanesimo classico e dell’anti-umanesimo moderno di dare legittimità all’esistenza dell’uomo. L’umanesimo, quello di Montaigne, perché non è riuscito a fondare l’uomo su una vita transitoria in dimenticanza della necessità di un punto di appoggio esterno. L’anti-umanesimo, quello di Foucault, perché incapace di spezzare il circolo della morte dell’uomo e della morte di Dio. Entrambi, ripiegando l’uomo nel proprio vuoto senza lasciargli via d’uscita, contribuiscono alla sua scomparsa. “La creazione di sé stessi da parte di sé stessi si trasforma nella distruzione di sé stessi da parte di sé stessi”. (Rémi Brague)».17

Note:

1. Hegel, Phénoménologie de l’esprit, Flammarion, 1996, p. 15.

2. Joseph de Maistre, Œuvres, Robert Laffont, « Bouquins », 2007, p. 311.

3. Nicolas Berdjaev, La fin de la Renaissance in Le nouveau Moyen Âge, L’Âge d’Homme, 1985, p. 25.

4. Ernst Bloch, La philosophie de la Renaissance, Payot, 2007, p. 10.

5. Ibid. pp. 10-11.

6. Ibid. p. 9.

7. Albert Einstein, L’Évolution des idées en physiques, Flammarion, 1948, p. 35.

8. Citato in L’intelligence en péril de mort, Marcel de Corte, L’Homme Nouveau, 2017, p. 98.

9. Ernst Bloch, op. cit., p. 12.

10. Jacques Maritain, Humanisme intégral in Œuvres complètes, vol. VI, Saint-Paul, 1984, pp. 316-317.

11. Albert Camus, « L’exil d’Hélène » in Noces suivis de L’été, Folio, 1959, p. 134.

12. Nicolas Berdiaev, op. cit., p. 42.

13. Georges Bordonove, François Ier, Pygmalion, 1987, pp. 9-10.

14. Nicolas Berdiaev, op. cit., p. 22.

15. Ibid., p. 33.

16. Gilles Deleuze, L’Anti-Œdipe, Minuit, 1972, p. 9.

17. Jean-François Mattéi, L’Homme dévasté, Grasset, 2015, p. 262.

Bibliografia :

Nicolas Berdjaev, Nuovo Medioevo

Ernst Bloch, Filosofia del Rinascimento

Jean-François Mattéi, L’homme dévasté

Jean-François Mattéi, Le sens de la démesure, éditions Sulliver (2009).

Georges Bordonove, François Ier, éditions Pygmalion (1987).

Jacques Maritain, Umanesimo integrale

Giambattista Vico, La scienza nuova

Georges Bernanos, La France contre les robots, éditions Le Castor Astral (2017).

Marcel de Corte, L’homme contre lui-même, Nouvelles éditions latines (1962).

(Revue Éléments, Jean Montalte, Repenser la fin de la Renaissance, 23 novembre 2023)

Traduzione a cura di  Piero della Roccella Sorelli

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