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Metapolitica

«Sulla democrazia e sulla figura del Democrate»

Le parole, non diversamente da ogni altro strumento, subiscono l’usura del tempo. Non diversamente dagli utensili, è proprio il passaggio di mano in mano ad accelerare questo processo, arrotondandone gli spigoli e perdendo la carica del significato originario, fino a diventare quasi irriconoscibili. Nessuna parola ha forse subito un processo di usura più radicale di “democrazia”. Oggi questo termine è un contenitore universale per ogni aspirazione al bene o – più frequentemente – un sinonimo pigro di libertà, tolleranza e diritto. Ovviamente in questa opera di sacralizzazione laicizzata, l’Illuminismo ha svolto un ruolo di primo piano. I regimi borghesi che si contrapponevano all’Ancien Regime, nel tentativo di darsi una legittimazione hanno cercato le proprie radici virtuose in un passato idealizzato, costruendo una genealogia che dall’Atene classica condurrebbe linearmente fino ai palazzi di Bruxelles, Washington, Montecitorio o dell’Eliseo. Naturalmente l’operazione è ideologica, come lo sono tutte le grandi opere di costruzione del mito, ma non per questo andrebbero concessi gli abbagli a cui ciò conduce nel rivendicare una “identità democratica”.

Democrazia non è un termine taumaturgico in grado di sciogliere i conflitti. Una necessaria operazione filologica rivela che l’elemento decisivo di questo costrutto lessicale, kratos, significa potenza in accezione di forza efficace, talvolta costrizione nella sua dimensione più fisica. Demos, senza kratos, resta una somma indistinta; kratos, senza demos, diviene pura prevaricazione. I Greci non ignoravano la frizione, giacché la democrazia ateniese fu un equilibrio instabile tra assemblea, tribunali, sorteggio e comando militare. La stagione di Pericle dimostra che l’egemonia culturale di un leader non aboliva i controlli, ma la città si riconosceva, nei passaggi decisivi, in una guida capace di imprimere direzione. Non è un caso che i detrattori del governo popolare chiamavano il partito al potere “democrazia” proprio per segnalarne l’aspetto coercitivo del kratos, mentre questo preferiva riferirsi a sé stesso semplicemente come “il demos”. Da qui la prima constatazione essenziale: dove oggi si legge “governance” i classici scrivono kratos. Svuotare il termine del suo nerbo “violento” significa occultare che la decisione comporta rischio, forte responsabilità personale e – all’occorrenza – conflitto. Nei momenti di biforcazione, la polis non si salva per mera procedura, ma perché qualcuno concentra e dirige l’energia comune. È proprio questo che la retorica contemporanea tende a eludere.

È interessante, inoltre, un termine di uso classico che ha conosciuto poca fortuna storica, demokrator. Nella grecità di età romana “demokratìa” può significare il dominio sulla comunità: in Appiano, Cesare e Pompeo “lottano per la demokratìa” (certamente non si contendono un’elezione); e un testimone tardo riferisce che Dione Cassio definiva Silla demokrator. Non è l’ufficio tecnico del dictator romano, ma un potere personale pieno, accettato perché efficace. Ne risulta sfocata la comoda opposizione scolastica fra “democrazia” e “dittatura”. La differenza, tuttavia, esiste e resta cruciale: il dictator romano è una magistratura straordinaria e a tempo, delegata dalla legge per sciogliere un’emergenza. Il demokrator potremmo definirlo un esito, è la forza collettiva che si riconosce in una guida che integra – anziché sospendere – il tessuto istituzionale, orchestrando il pluralismo senza dissolverlo. In età moderna, questo dispositivo riappare come cesarismo e, in una certa fase storica, con il nome di bonapartismo: governo personale che nasce da un rapporto diretto col corpo civico e misura la propria legittimità sull’efficacia.

Ma tornando ad Atene, è notevole ricordare che Tucidide anticipa in Pericle la figura del princeps: per scongiurare l’accusa di essere un regime democratico (horribile dictu), riferisce di Atene che fosse “a parole democrazia, nei fatti governo del pròtos anèr (primo uomo)”. Dunque, un primato personale accettato, capace di rendere operante la legalità e di egemonizzare la maggioranza. L’immagine rovescia il luogo comune della democrazia ateniese come principio dei sistemi assembleari “riscoperti” in età moderna, e mostra invece uno sconveniente collegamento con l’istituzione romana di cui nella storia anche il corso Bonaparte si sarebbe fatto continuatore nelle intenzioni: un compromesso fra élite, corpi e popolo, con una guida che sa anche essere impopolare. Demo-crazia dunque, non equivale a demo-archia: l’operazione di camuffamento di “forza dei molti” in “principio dei molti”. Che la democrazia sia anche questione di indipendenza materiale lo dimostra un episodio storico specifico: nell’89-87 a.C., quando Atene riacquista per un momento sovranità, riattiva forme democratiche. Indipendenza e democrazia vanno insieme perché la cittadinanza è, prima di tutto, potenza in armi: senza autonomia nessun kratos comune è esercitabile. Non è solo un promemoria scomodo per chi identifica la democrazia con un sondaggio eterno, ma se nella mente di alcuni ciò apre lo sguardo verso un regime militare tradizionalmente contrapposto ad Atene come quello di Sparta, ciò non è un caso. Fu difatti l’ateniese Isocrate a definire Sparta una “perfetta democrazia” per il suo far coincidere cittadinanza e potenza in armi nella figura degli spartiati: cittadini per diritto di sangue, armati e chiamati a esercitare una partecipazione esclusiva nei confronti dello straniero.

Per dare concretezza alla figura del demokrator, si tratta di definirlo come colui che riceve un mandato ad alta energia e lo restituisce in opere, definendo priorità e tempi. In altre parole, un regime è democratico non se esclude l’esistenza di élites, ma se le riqualifica da élites di nascita a élites di funzione il cui rango dipende dalla capacità di rendere produttiva la forza del popolo. Napoleone è un caso esemplare, non ha rivestito un ruolo dittatoriale in senso romano quanto piuttosto di direttore plebiscitario: la sua amministrazione fondata su un rapporto immediato con la nazione, senza abbattere i corpi intermedi ma riorganizzandoli attesta una parabola che – con le eventuali ombre del caso – conferma il kratos come un utensile. La questione prima di essere istituzionale è anche simbolica. La storia è un serbatoio di immagini e riti civili che concentrano l’attenzione collettiva. Senza questo registro, la politica si riduce ad amministrazione macchinosa. Nei momenti decisivi, le comunità si raccolgono attorno a figure che separano il tessuto vivo da forme parassitarie: interpreti capaci di liberare risorse contro rendite e apparati che le drenano. È il modo con cui il “sacrale” civile convoglia, senza misticismi, l’energia comune.

Che l’accezione reale di democrazia oggi risulti così aliena, se non contraddittoria, non è ingiustificato: “democrazia” è un termine che ha avuto tre secoli marginali nell’antico, è poi scomparso per lungo tempo e risorge tardi, fino alla consacrazione post-1789; nel ventesimo secolo spesso impiegata come parola d’ordine contro regimi illiberali più che come definizione istituzionale. Tornare ai testi è un esercizio necessario per riconoscere pulsioni vitali della politica comunemente demonizzate nella figura maligna del “demagogo populista” che – osservava Spengler – corrispondono ad una fase di declino delle burocrazie amorfe, destinate a crollare nel cesarismo, che non viene ad estinguere la democrazia ma a rivitalizzarla. Non si invoca l’uomo della provvidenza, ma una grammatica che leghi decisione e responsabilità, consentendo al popolo di riconoscersi in chi governa, così che “democrazia” torni a significare capacità di destinare e non solo di amministrare con esiti veri.

Andrea Falco Profili

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