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La forbice di Jünger ferma il treno in corsa dei falsi dèi di Prometeo

I ricordi sfioriscono e spesso ricompaiono simultaneamente ad una rilettura. Non è dato sapere per quale motivo le letture che più ci hanno colpito siano ammantate da «quel velo sottile tessuto, in genere, dal tempo che trascorre». È il caso della sorpresa di un dono inatteso, “La forbice” — Die Schere — di Ernst Jünger, la riedizione di Guanda Editore del 17 marzo 2022, tradotta da Alessandra Iadicicco e con la stimolante Postfazione di Quirino Principe. All’improvviso il tempo sembra voler fare un balzo a quel lontano 1996, quando lessi per la prima volta il libro. A cambiare però, è tutta una prospettiva: l’immaginario collettivo è completamente stravolto. In quegli aforismi di Jünger era facile riconoscere l’essenza di una visione delle cose attorno a sé orizzontale. Il genio di Heidelberg li aveva scritti alla veneranda età di novantacinque anni alla fine degli anni Ottanta e, in questa nuova pubblicazione, passati parecchi anni dalla prima edizione in Italia, è ancor più facile scorgerne tutte le gradazioni.

Quirino Principe è molto bravo ad evidenziare lo «Jünger attento alla cosmologia ciclica di questa fin-de-siècle» e lo è ancor di più, quando mette in evidenza quello che per Paolo Isotta poteva certo essere un tabù: «lo sguardo tardo di Jünger, non è cristiano. Esso si crea l’angolo d’osservazione tra il pagano Hölderlin e l’anti-cristiano Nietzsche, tra la gnosi e l’Umwertung aller Werte — tra la gnosi e la trasvalutazione di tutti i valori—, chiedendo con il massimo rispetto illustri e decorative conferme allo scettico panteismo di Goethe e alla sua religio estetica». Tuttavia, questa disquisizione che dura da interminabili anni sul primo Jünger “pagano” e l’ultimo Jünger a metà tra il politeista ed il cristiano, lascia il tempo che trova.

La bravura di Jünger non la si comprende con la sola individuazione del finalismo cristiano, cosa ormai chiara a tutti. Bensì, nel momento in cui riuscì ad attraversare l’arco temporale che va da un’epoca all’altra, sperimentando la veemenza scaturita dalla fine della modernità, addentrandosi nelle brughiere complesse del postmoderno: sapendo benissimo che «il tempo anticipato sotto l’effetto del fumo è rubato agli dèi». Il fumo negli occhi di coloro che rifiutano l’incontro con sé stessi e sono avvezzi ai salti di tempo, seguendo una gretta proceduralità dove «di principio non vi è ciò nulla di prodigioso» ma parecchio del dramma di Faust. A tal proposito, volendo fare un paragone, viene in mente l’ambientazione del treno in corsa di Snowpiercer, il film del regista e scenografo sudcoreano Bong Joon-ho.

Il quale nel 2013, ebbe la felice intuizione di riversare su quel treno rompighiaccio che attraversava il globo, una trama che è solo in parte surreale, lo specchio di alcune prerogative infauste della società attuale. Guardandoci bene dall’arrischiare una comparazione con “La forbice” di Jünger e con il passaggio da chi osserva e vede, diventando un Selbstdenker, colui che è un pensatore libero e che è in grado di «pensare da sé», il destino del Nostro era già compiuto da un pezzo. Tuttavia è forte il richiamo a quei vagoni del treno del film, dove la finzione e la recitazione stringono un patto con la tangibilità per nulla onirica dei fatti, dove in coda siedono i miserabili e alla testa del treno trovano alloggio i privilegiati. La società della forma capitale, il dispiegamento della Tecnica e della Scienza svincolate dall’egida dell’uomo, l’annullamento del paradigma classico, erano per Jünger e lo saranno 23 anni dopo in egual misura per il regista Bong Joon-ho, delle nozioni già ampiamente discusse.

Ma Jünger aveva già intuito qualcosa che ha a che fare con la macchinazione, il calcolo, un’ideologia e la sua dottrina, indicando l’esatto opposto di ciò che gli si poteva contrapporre. In questo, il suo pensiero non era poi così diverso da Heidegger. Le domande che troviamo in “La questione della tecnica”, in particolate nella risposta sul disvelamento che governa la tecnica moderna, per entrambi erano le medesime: «Il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un pro-durre nel senso della ποίησις. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata». Un’energia mutata in altra forma: in un dispositivo, struttura a rete, meccanismo, protocollo, apparato e sistema, di un «potere che non è umano né non-umano». Quel totalitarismo che mostra il volto dello show nello show della Tecnica in politica, sostituita da un apparato che è amministrativo e gestionale, il cui ultimo fine è la perpetuazione del proprio dominio e l’appagamento di sé stesso.

Il merito di Bong Joon-ho è quello di porre l’accento sul protagonista principale, Curtis, in attesa del momento propizio per riprendersi la testa del treno, assieme a tutta la comunità degli svantaggiati. Quello di Jünger invece, è l’aver capito in anticipo quanto sia importante il ripristino di un ordine delle cose, contro tutto ciò che annichilisce, desertificando la volontà e lo spirito: la dismisura soverchiante che ha soppiantato laphysis superando ogni limite, per il motivo che «la spirale attiene allo spazio, la forbice al tempo». Il filo conduttore de “La forbice” jüngheriana è l’omogeneizzazione che non risparmia nulla, più quello strano surrealismo che vorrebbe far passare il neo-alchimismo del «Progresso» e la nuova forma di prometeismo quali fossero irreversibili, mentre tutto ci induce a pensare ad una alternativa.

In effetti, «oggi sembra piuttosto che il progresso debba essere fermato», nonostante i Guru dediti allo strambo tecnomorfismo, dicano tutt’altro. Non resta che chiedersi se «ora che le ruote si fanno incandescenti» ed il treno di Snowpiercer viaggia a tutta velocità diretto verso il disastro, sia ancora possibile fermarlo. Secondo la volontà di Curtis, quella che dovremmo avere un po’ tutti, l’ultima fermata è vicina. Chiaro è che per Jünger, grazie all’ausilio del pensiero e della scrittura, l’insieme delle cose non rappresentava una discesa a capofitto in un burrone che assimila una pandemia mondiale a una nuova guerra nel cuore dellEuropa, tanto meno al ripristino di una globalizzazione 2.0. In fin dei conti, la forbice del tempo che separa il filosofo dal regista, è ampia.

Il genio di Heidelberg, diversamente dal regista Bong Joon-ho, ci invita a riscoprire non l’anima e/o il successo che scaturisce dal complesso delle attività industriali e tecniche: il sud-coreano non era esente dalle lusinghe del marchingegno del produttivismo della cinematografia scintillante. Per Jünger, invece, erano di primaria importanza lo spirito e l’incantamento del mondo, che nulla hanno a cui vedere con l’abbandono di una Kultur simpatetica con le forze vitali della Terra e del Cosmo, in stretta relazione tra loro. Poco importa, al giorno d’oggi, l’impeto di una pellicola science fiction, post-apocalittica e da botteghino, in perfetto stile hollywoodiano.

Il voler dimenticare cosa sia il senso dello stare al mondo e quello di una comunità, ha reso l’uomo un essere dedito al calcolo, al profitto, dall’unico interesse che è la cura dei propri interessi particolari. Il Nostro ben conosceva le chimere dei titani, generatrici «di figure divenute estranee alla coscienza storica», quali sono i moderni alchimisti, gli inquisitori, i deamhain gaelici; diamogli pure un nome a quei demoni che hanno attraversato i secoli e tutte le concezioni del «Sacro». Mettendoci in guardia dalla venerazione per l’individualismo che imperversa ovunque, dalla spettacolizzazione dei media, dal burocratismo e dal tecnicismo discesi in politica: «da quelle teste vuote che hanno il coraggio di presentarsi», perché essi sono «degli eccellenti specialisti», non c’è da aspettarsi nulla di buono.

Una tirannia del “bene” che il longevo Jünger descrive minuziosamente ne “La forbice”, ossessionata compulsivamente dal voler superare ogni record possibile. Pensando, inoltre, di riuscire persino a sconfiggere la morte: cosa che per i nostri predecessori era considerata inviolabile, per la ragione che il tempo non era visto in maniera uniforme e lineare come lo è diventato nella nostra epoca. In tal senso, sono molto interessanti i paragrafi dedicati alla vita e alla morte, alla «tecnica in grado di prolungare di molto il tempo che si impiega a morire», di una medicina che si fa beffe del giuramento di Ippocrate, sebbene intorno continuino ad aumentare «il numero degli incidenti mortali», compresa la minaccia di piccole e grandi catastrofi. L’iperbole discendente di una società già in parte compromessa nel lontano 1901, in maniera tale da indurre Léon Bloy a scrivere il suo celebre “Esegesi dei luoghi comuni”, prendendosela parecchio con quelle frasi fatte, ipocrite e falsamente moraliste, con i falsi “principi” da sciorinare ad ogni buona occasione: «La bicicletta e l’automobile sono sorpassate, perché i princìpi sono ancora più veloci, e schiacciano meglio, in modo più soddisfacente, più irrimediabile». Un inno alla vigliaccheria conformista che farebbe ben impallidire alcuni di quei saccenti, quanto ingannevoli, “anticonformisti” di oggi.

Non può non venire in mente quello che ha scritto Guy Mettan, giornalista e storico ginevrino, nel suo saggio “La Tyrannie du Bien. Dictionnaire de la pensée (in)correcte”: «la ricerca frenetica della virtu’ è diventata un’ossessione universale che non si limita ai circoli woke e alle ONG moraliste». In fine dei conti, viene praticata proprio in quei salotti ovattati delle sale di consiglio, negli uffici open space dei manager, nelle anticamere inclusive dei ministeri, nelle asettiche aule delle università e sui social network. Luoghi in cui la tirannia del “Bene” decide, amministra, gestisce, pianifica e assiste: legiferando, confinando, condannando le idee non conformi, spesso bombardando e uccidendo. Dal falso mito di un Impero, il “Bene” mostra la sua faccia, quella di una delle tirannidi più perniciose della storia dell’uomo.

La metafora de “La forbice”, conduce il lettore verso la fine di una società, mostrandone tutte le disfunzioni. La forma caotica, dedita al catastrofismo che non contempla minimamente gli altri esseri, le differenze esistenti e le relazioni che intercorrono tra loro, credendo che basti universalizzare ciò che fa comodo grazie al dominio della razionalità. Additando chiunque non la pensi così, quale fosse un primate in via d’estinzione, tendendo a risolvere i problemi dall’interno di una bolla autoreferenziale, del tutto incontrollabile e aleatoria, allontanando di parecchio la verità ed il reale. Facendone un’eccezione, un mistero. Ed è lo stesso Jünger ad aprirci la strada, tracciando l’unica via percorribile che è quella di combattere e vincere la battaglia delle idee, contro l’indistinto e l’atomizzazione dei nostri popoli.

Ernst Jünger, La forbice, traduzione a cura di Alessandra Iadiccicco, Postfazione di Quirino Principe, Gaunda Editore, 17/03/2022, Ppgg. 204, euro 18.00.

2 risposte su “La forbice di Jünger ferma il treno in corsa dei falsi dèi di Prometeo”

This is an incontrovertible fact. It must also be said that the quibbling about his religiosity has grown tiresome. He certainly had a great sense of the ‘Sacred’ that often did not coincide at all with a certain understanding of the religious in the strict sense of the term. His intellect, his sensitivity and his observation of all areas and spheres were aware of the problem and the relationship between perception and knowledge.

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