Yukio Mishima ha espresso, in «Sole e Acciaio», una riflessione intima e universale allo stesso tempo, in cui il corpo diventa una fortezza contro la corrosione delle parole, e in cui la bellezza classica si intreccia con una pulsione romantica verso l’autodistruzione, che culmina col suo seppuku nel 1970.
- Jean Montalte
- 25 luglio 2025
Una celebre massima di La Rochefoucauld risuonava vagamente nella mia mente, come se fosse indirizzata direttamente a Mishima: «Né il sole né la morte possono essere guardati fissamente». Un aforisma intriso dell’acciaio del classicismo francese, al quale lo scrittore giapponese non era insensibile. Sole e acciaio, letto e riletto ogni estate, produceva l’inquieto incantesimo a cui nessuna anima leggermente agitata poteva resistere. Un incantesimo suscitato dall’unione del sole e della morte, irradiato dalla luce perfetta della perversità. «Il sole estivo», scrisse Mishima, «irradia il sottile tessuto di una luce imparziale su l’intera creazione». Certo, ma il sole dello scrittore non era proprio questa splendida stella di chiarezza. Il suo sole è tragico, ammaliante, mistico, imperiale e mortale. Le sue macchie sono destinate all’implosione con tutti i suoi raggi.
Questo libro inclassificabile, soggettivo e lirico, morboso, corroborante, solare, romantico fino alla decomposizione, di un classicismo violentemente rovesciato, distillò il suo veleno benefico. Mishima collocò questa strana e sontuosa opera «a metà strada tra la notte delle confessioni e il grande giorno della critica», prima di proporre una definizione definitiva: «critica confidenziale». Si trattava quindi di trovare «un modo di espressione del corpo». Un oggetto ibrido, dunque. Una storia di iniziazione, preludio alla distruzione: edificazione di un corpo, una fortezza di muscoli alla Vauban, che resistesse all’influenza deleteria delle parole, al «loro potere di corrodere», alla «loro capacità corrosiva». Perché, se Mishima era uno scrittore, un poeta, nonostante lo negasse – «Non sono mai stato un poeta» – e uno dei più grandi, egli collocò il suo destino al di là delle parole, e persino contro di esse, in un certo senso. In questo è simile a Paul Valéry, la cui diffidenza verso il linguaggio e i suoi incantesimi non ha eguali, se non nel secondo Wittgenstein, quello delle Ricerche Filosofiche.
Per Mishima – secondo la descrizione che egli stesso fa – era come se le parole stessero aggredendo il suo corpo, come formiche bianche che si nutrono di un pilastro di legno. Così, si risvegliarono in lui due tendenze contraddittorie, che degenerarono in una completa antinomia. «Una», scrive, «era la determinazione di favorire lealmente la funzione corrosiva delle parole e di dedicare loro la mia vita professionale. L’altra era il desiderio di confrontarmi con la realtà in un ambito in cui le parole non avrebbero avuto alcun ruolo». L’impalpabile iridescenza dei sensi risvegliati al mondo percepito fu immediatamente ostacolata dalla presenza invadente delle parole.
«A scuola», racconta, «il mio insegnante era spesso insoddisfatto della mia scrittura, priva di qualsiasi vocabolario che potesse avere a che fare con la realtà. Sembra che, nella mia mente infantile, avessi un presentimento della sottigliezza, della delicatezza delle leggi del linguaggio e che non ignorassi la necessità di evitare il più possibile il contatto con la realtà attraverso le parole, se si voleva, pur beneficiando dei vantaggi della loro funzione corrosiva, sfuggire al loro effetto negativo, se, per dirla più semplicemente, si voleva preservare la purezza delle parole. Istintivamente, sapevo che l’unica possibilità che mi si apriva era quella di monitorare costantemente la loro azione corrosiva, per paura che si scontrasse improvvisamente con un oggetto da attaccare». Fin dall’infanzia, Mishima consumò il divorzio tra la parola e il mondo, che sarebbe stato il dramma intimo di Mallarmé, intimo e tuttavia metafisico. Sembra un alveare che si agita nel cuore di uno sciame disalberato, come una conchiglia che ogni crepa impregna. Mallarmé evoca questo cemento che svanisce, in uno stile più impressionista e onirico: «Così chiara, questa luce incarnata, che fluttua nell’aria cullata da un sonno denso»
Oltre le parole
Per raggiungere la realtà, le parole, non solo sono insufficienti, ma diventano l’ostacolo principale. Il corpo, che dovrebbe naturalmente assolvere a questo compito, quello di immergerci nel grande bagno dell’esistenza, è purtroppo contaminato dalle parole. Il corpo soffre di ambiguità. «Ignoravo che il corpo umano non si rivela mai ‘come esistenza’. Ma come vedevo le cose, avrebbe dovuto apparire, chiaramente e inequivocabilmente, come esistente». Per garantire al corpo la possibilità di essere nel mondo, di esistere pienamente, deve essere liberato dalle parole: «E poiché, sfuggendo alla norma, la mia esistenza corporea era indubbiamente il prodotto della corrosione intellettuale delle parole, allora il corpo ideale – l’esistenza ideale – doveva, mi dissi, rimanere assolutamente libero da qualsiasi interferenza delle parole. Le sue caratteristiche potevano essere riassunte così: taciturnità e bellezza formale». Così inizia «la ricerca di una bellezza assolutamente libera da ogni corrosione».
«Grazie al sole e all’acciaio, avrei imparato il linguaggio della carne, proprio come si impara una lingua straniera. Era una seconda lingua, un aspetto del mio sviluppo spirituale». Non era sempre stato così; prima di allora, Mishima e il sole erano stati in disaccordo: «L’ostilità verso il sole era la mia unica ribellione contro lo spirito del tempo. Desideravo ardentemente la notte di Novalis e i crepuscoli irlandesi di Yeats». Ma c’erano i portatori delle reliquie sacre, tra i quali Mishima ebbe il privilegio di essere, durante la festa locale delle reliquie. E la rivelazione dell’azzurro, di un cielo puro, blu e insolito, una volta celeste che fungeva da decorum per il pathos tragico, dispensando i suoi «elementi di ebbrezza e sovrumana chiarezza». Infine, ci fu la riconciliazione: «Fu nel 1952, sul ponte di una nave durante il mio primo viaggio all’estero, che scambiai la stretta di mano della riconciliazione con il sole. Da quel giorno, non sono più riuscito a separarmi da lui. Il sole fu da allora in poi il mio compagno sulla strada maestra della mia vita. A poco a poco, la mia pelle si scuriva per effetto dell’abbronzatura, segno che ora appartenevo all’altra razza».
L’acciaio impaziente entrò in scena, poiché il sole «mi ordinò di costruire una nuova e robusta dimora dove il mio spirito, man mano che saliva in superficie, potesse vivere al sicuro. Questa dimora», continua, «era la pelle abbronzata e lucente, muscoli potenti e delicatamente increspati». L’acciaio sarebbe poi diventato la lega che avrebbe riunito le parole e il corpo. Il corpo, cambiando forma, avrebbe adottato forme analoghe a quelle artistiche. «I muscoli divennero gradualmente qualcosa di simile al greco classico. Resuscitare la lingua morta necessitava la disciplina dell’acciaio».
Culturismo e letteratura
La pratica del culturismo e letteratura si compenetrano; corpo e parole non sono più antagonisti assoluti, poiché lo sviluppo muscolare ha un impatto sullo stile. «Ora, avevo reso il mio stile qualcosa di appropriato ai miei muscoli: era diventato flessibile e libero, spogliato di ogni untuoso ornamento, mentre era stato assiduamente mantenuto un ornamento ‘muscolare’. […] Soprattutto, mi interessava la distinzione. […] Il mio ideale di stile avrebbe avuto la seria bellezza del legno verniciato nel vestibolo della dimora di un Samurai in una giornata invernale». Nasce la fantasia di una possibile armonia tra queste entità opposte: «Da qualche parte dentro di me, ho iniziato a progettare di unire arte e vita, stile ed etica dell’azione».
Tuttavia, al di là della costruzione di un corpo che la statuaria greca non avrebbe rinnegato, la morte vigila. «Al di là del processo educativo, se ne nascondeva anche un altro, un disegno romantico. L’impulso romantico, dall’adolescenza in poi, era sempre stato una vena nascosta in me, il cui significato era solo la distruzione della perfezione classica». Il Romanticismo come distruzione della perfezione classica è una concezione delle cose che ha forti connotazioni maurrasiane. Stéphane Giocanti, nel suo libro Yukio Mishima et ses masques, non ha mancato di sottolineare le numerose analogie che collegano – «l’analogia è il più bello di tutti i legami», diceva Platone! – il provenzale al giapponese. Ma continuiamo con la conclusione: la bellezza classica è stata preda della pulsione di morte romantica fin dall’inizio. «In questo caso, nutrivo un impulso romantico verso la morte, pur richiedendo come veicolo un corpo rigorosamente classico; un peculiare senso del destino mi fece credere che la ragione per cui il mio impulso romantico verso la morte rimanesse in realtà insoddisfatto fosse il fatto immensamente semplice che mi mancavano i requisiti fisici necessari. Una struttura possente e tragica, una muscolatura scultorea, erano indispensabili per una morte nobilmente romantica». Il 25 novembre 1970, alle 10:30, presso il quartier generale delle Forze di Autodifesa Giapponesi, nel cuore di Tokyo, Mishima si suicidò con il seppuku, dopo aver pronunciato un discorso, senza ricevere altra risposta se non i fischi della folla. Poi, essendo le parole inutili, non rimase che distruggere il corpo. Fortunatamente, ci sarà sempre un divario tra il corpo di Mishima e le sue parole. Infatti, se Mishima si tolse la vita, non permise mai alla morte di corrompere il suo stile, a cui le parole deve la sua immortalità.
Jean Montalte
Traduzione a cura di Piero della Roccella Sorelli.
Jean Montalte, Èlèments, Yukio Mishima, les mots versus la chair, 25 luglio 2025.
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